Generazione Zeta: un’incognita da decifrare

Valori, atteggiamenti, visione del mondo e del proprio ruolo in esso, emergono dopo gli anni della prima adolescenza, quando si lancia lo sguardo oltre le mura protettive della casa dei genitori. Si inizia a prendere in mano la propria vita, a pensare a scelte che mettono le basi del proprio futuro, a vivere e interpretare (senza mediazione delle agenzie di socializzazione primaria: famiglia e scuola) gli eventi del momento storico in cui si vive. E’ la fase che oggi sta attraversando, appunto, la Zeta, generazione che arriva dopo i Millennials.

Nuove competenze per più sviluppo

Le elezioni politiche dovrebbero costituire un’occasione preziosa di riflessione e confronto sul progetto di Paese che vogliamo realizzare, non esaurirsi in un elenco di promesse finalizzate a massimizzare il consenso immediato. Il dibattito aperto dall’articolo di Calenda e Bentivogli su questo giornale ha il pregio di alzare lo sguardo comune oltre l’interesse di chi vincerà le elezioni del 4 marzo, per definire una strategia in grado di rendere vincente la risposta del nostro Paese alle grandi sfide di questo secolo. Perché tale strategia sia vincente è necessario prima di tutto che sia avvincente (coinvolgente e appassionante) nei confronti delle nuove generazioni. Non c’è alcuna possibilità di costruire un futuro migliore senza mettere in relazione virtuosa le opportunità del mondo che cambia, le specificità (culturali e strutturali) del territorio, le potenzialità e le sensibilità delle nuove generazioni. Ignorare anche uno solo di questi tre elementi porta ad un fallimento certo nel medio-lungo periodo.

Son (quasi) tutte vuote le culle d’Italia

Cosa c’è di nuovo nei dati sulla demografia italiana aggiornati al 2017 e di recente pubblicati dall’Istat? Nel 2013 siamo scesi a 513 mila nascite, che allora era il livello più basso della nostra storia nazionale. Ogni anno successivo siamo scivolati però ancora più in basso e questo vale anche per il 2017, che con 464 mila nati ci porta ancora una volta a dire: “mai così pochi dal 1861 a oggi”. Il prossimo anno riusciremo a fare ancora peggio o vedremo finalmente i segnali della ripresa post crisi stimolati e sorretti da adeguate politiche?

La scelta di avere figli: impegno verso il futuro

Per millenni e millenni nella storia dell’umanità la vita è stata trasmessa da una generazione alla successiva in condizione che i demografi definiscono di “fecondità naturale”. Ovvero la questione del “quanti” figli avere e “quando” averli non si poneva. Si formava una unione di coppia e poi i figli semplicemente arrivavano. Poteva accadere di non averne, nel caso di infertilità, o di averne molti. Oggi le condizioni sono molto diverse. Un aspetto senza dubbio positivo è l’aver prolungato la durata di vita di chi viene al mondo. Se in passato era del tutto normale la perdita prematura di un figlio, ora questo è diventato un evento raro. La mortalità infantile, soprattutto in paesi avanzati come il nostro, è stata ridotta a livelli molto bassi e la maggioranza delle persone arriva in buona salute in età anziana. Un secondo aspetto di grande cambiamento è la riduzione del numero di figli, conseguenza del passaggio dalla condizione di fecondità naturale all’inclusione della riproduzione nella sfera della scelta.

Recuperare la credibilità perduta

È passato esattamente mezzo secolo dal 1968. La società italiana è molto diversa da allora. I giovani stessi sono molto diversi. Le nuove generazioni sembrano oggi una forza debole, poco attiva e poco coinvolta nei processi di cambiamento del Paese. Manca la spinta catalizzatrice dei grandi ideali. Manca la visione positiva del futuro. Manca il peso demografico crescente dei giovani. Rimane però vero che in ogni tempo le nuove generazioni sono l’energia principale per dare direzione positiva al cambiamento. Questo è ancora più vero in un paese che invecchia e in un secolo che propone grandi mutamenti e continue sfide.

Da un lato l’Italia ha quindi bisogno di giovani più di quanto non riesca a dimostrare. D’altro lato i giovani stessi hanno bisogno di mettersi alla prova e di produrre un proprio impatto nella realtà che li circonda più di quanto riescano nei fatti ad esprimere. Domanda e offerta di partecipazione sociale e politica fanno però fatica a stimolarsi al rialzo in Italia. Se i giovani fossero disinteressati e individualisti – come vengono spesso ritratti da indagini occasionali con chiavi di lettura superficiali – ci sarebbe ben poco da fare. Esiste, invece, un’ampia attenzione verso temi collettivi (come la giustizia sociale, le diseguaglianze, l’ambiente, il riconoscimento del merito), ma anche una disponibilità ad operare per il bene comune non inferiore né alle generazioni precedenti e né ai coetanei degli altri paesi.
Più in generale, i giovani mostrano una grande voglia di contare sulle decisioni pubbliche che hanno ricadute sul loro futuro. Includerli però non è scontato. Nelle nuove generazioni partecipazione e appartenenza sono infatti più fluide, fanno parte di un processo riflessivo all’interno del quale tutto viene rimesso continuamente in discussione. Anche il loro voto è, di conseguenza, molto più fluido e quindi ancor più prezioso quando il risultato finale è incerto. Rischia però di evaporare se manca un’offerta politica credibile, convincente e coinvolgente. La debolezza di tali tre “c” – come mostrano i dati del “Rapporto giovani 2018” dell’Istituto Toniolo (coordinato da chi scrive) – porta come esito: bassa adesione ai partiti tradizionali, tentazione a indirizzare il consenso verso chi dà voce a protesta e frustrazione, ma soprattutto crescente disaffezione generalizzata. E’ il ritratto di una generazione delusa e confusa rispetto all’offerta attuale ma soprattutto rispetto al proprio ruolo e alla propria condizione. Una generazione alla quale non manca l’aiuto privato dei genitori ma a livello pubblico orfana di alleati solidi e affidabili con i quali immaginare un destino migliore per il Paese.