Perché il bonus bebè non è un incentivo

Magari bastassero le buone intenzioni per risollevare la cronica denatalità italiana. Per riuscirci serve molto di più, a partire da una potenziata capacità di lettura della realtà in mutamento, passando per una maggiore disponibilità a mettere in discussione quello che in passato non ha funzionato, per arrivare ad una più ampia visione e condivisione dell’azione politica.

Milano laboratorio di innovazione diffusa

Ovunque le sicurezze del passato sono in discussione. Se in alcuni paesi prevale ciò che di nuovo si ottiene rispetto a quello che si perde, l’Italia sembra invece spaesata. Spinta dalla storia fuori dalla comfort zone che pensava di aver trovato negli anni Sessanta e all’interno della quale si è trincerata fin quasi alla fine del secolo scorso, ora sembra non aver ben chiaro dove andare e a fare cosa. Ad un certo punto è sembrato che la soluzione fosse semplicemente quella di entrare in Europa. Ma da tempo è oramai ben chiaro che l’appartenenza, anche convinta, all’Unione non significa agganciarsi come un vagone ad una locomotiva; non è sostitutiva del trovare una proprio modello sociale e di sviluppo coerente con i tempi nuovi. Poi è arrivata la crisi economica utilizzata come alibi per continuare nella tattica della difesa e del rinvio anziché cambiare e rilanciare.

Meno trentenni e culle più vuote

Viviamo sempre più a lungo e conseguentemente si espandono i tempi di tutte le fasi della vita. Ma non tutto si può posticipare senza rischio di rinunce definitive. E’ il caso della scelta di diventare madre. Secondo i dati del “Rapporto giovani” dell’istituto Toniolo meno dell’8 percento delle ragazze attorno ai 20 anni esclude in futuro di avere figli. Quando però poi si arriva a 50 anni una quota decisamente maggiore si trova ad aver di fatto rinunciato definitivamente a tale scelta. La percentuale, secondo le stime Istat, di donne mai diventate madri è salita da circa il 10 percento per la generazione del 1950 a oltre il 20 percento della generazione nata nel 1970.

Un motivo oggettivo sta nel fatto che nelle nuove generazioni Il tempo disponibile per avere figli si è ridotto all’interno di una fase della vita che si è, peraltro, notevolmente complicata. Sempre più ragazze, in misura anche maggiore rispetto ai maschi, estendono la propria formazione fino alla laurea. Il trovare un buon lavoro ha sostituito il trovare un buon partito nei motivi di indipendenza economica dai genitori. ‘L’instabilità dell’occupazione, assieme all’incertezza nelle relazioni affettive, porta sempre più oltre i 30 anni il momento in cui si inizia a mettere solide basi di una propria famiglia. Nel frattempo, però, il limite conclusivo del periodo fertile è rimasto pressoché immobile. L’età media alla menopausa è poco sopra i 50 anni, ma già dopo i 45 le possibilità di avere un figlio sono irrisorie. Avendo spostato tutto il percorso adulto dopo i 30, il momento riproduttivo centrale è diventato quello tra i 30 e i 34 anni, con una possibilità di recupero dopo i 35 che però diventa una strada in salita. I dati più recenti ci dicono che oggi una nascita su tre si realizza nella classe di età 30-34 e che la classe 35-39, con il 25% dei nati, supera quella tra i 25 e i 29 (23%). Questo vale ancor di più per le cittadine italiane che concentrano tra i 30 e i 39 anni quasi i due terzi nelle proprie nascite. Lo slittamento in avanti del punto di inizio della vita feconda, in combinazione con la rigidità del punto finale, ha quindi ristretto notevolmente lo spazio strategico di accesso all’esperienza della maternità. Nel contempo tale spazio si è anche riempito sempre di più di investimento lavorativo e professionale. Siamo così uno dei paesi avanzati in cui si arriva più tardi a cercare di avere un figlio ma anche, come ben noto, uno di quelli più carenti di strumenti per la conciliazione tra lavoro e famiglia. La conseguenza di tutto questo è che più facilmente ci si trova a rinunciare ad avere figli o a limitarsi ad un figlio solo.

Fino a qualche anno fa, tuttavia, la consistenza numerica delle trentenni era ampia e questo ha limitato la caduta della quantità complessiva di nascite nel Paese. Stiamo ora però entrando in una nuova fase, in cui le potenziali madri sono esse stesse in riduzione perché provengono dalle generazioni nate dopo il 1985, quanto la fecondità italiana è precipitata ai livelli tra i più bassi al mondo. L’Italia rischia quindi oggi di scivolare in una trappola demografica: meno figli ieri equivalgono a meno madri oggi e quindi ad ancor meno figli domani se le condizioni non cambiano.

Come uscire allora da questa trappola? Soprattutto togliendo le donne stesse dalla condizione di intrappolamento nella quale si sono sempre più trovate negli ultimi decenni e consentendo, in tempi meno tardivi e alla più alta espressione, la realizzazione delle loro scelte professionali e di vita. Più tardiamo ad agire in questa direzione più pesanti saranno i costi futuri.

Servono cittadini che sanno scegliere

Sarà interessante per ciascun cittadino valutare la coerenza tra i propri progetti di vita e il nuovo corso che intende imprimere chi sostituirà Pisapia a Palazzo Marino. Un diciottenne può, ad esempio, pensare di scegliere di perfezionare il proprio capitale umano in una delle università della città oppure andare all’estero. L’eventuale decisione di fare un’esperienza di formazione o lavoro oltre confine può poi prevedere il ritorno o la scelta definitiva di rimanere altrove. Tutto questo ha a che fare con la scelta del nuovo sindaco?

Un neodiplomato o uno studente universitario può avere un’idea di startup da realizzare. Per provare a concretizzarla con successo ha bisogno di un ecosistema adeguato. Servono competenze avanzate, un ambiente stimolante, finanziamenti possibili, servizi di supporto, incubatori, luoghi di interazione e contaminazione attiva. Contano le politiche di sviluppo, di stimolo alla creazione di un network internazionale, di accesso a spazi, di facilitazione e incentivo all’innovazione da parte dell’ente pubblico?

Come investire nel futuro

Uno dei principali nodi del nostro paese è la difficoltà a far stare positivamente assieme la scelta di avere un figlio con quella di un lavoro. Favorire la possibilità di realizzare tali due obiettivi ha ricadute positive per tutti: dovrebbe quindi essere considerata una priorità per un paese che vuole crescere e migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini. Passare dalla competizione alla conciliazione tra lavoro e famiglia è stato uno dei punti di svolta principali delle società moderne avanzate. I paesi sviluppati che più hanno investito in tale direzione presentano oggi una fecondità più elevata e una maggior presenza femminile nel mercato del lavoro. Si trovano di conseguenza con un invecchiamento della popolazione meno accentuato, una crescita economia più solida, un sistema sociale più sostenibile, maggior entrate nelle famiglia e quindi anche minore povertà infantile. Se l’Italia mostra una condizione più problematica su tutti questi ultimi aspetti, nel confronto con il resto del mondo avanzato, è perché abbiamo a lungo pensato che le misure di conciliazione fossero un costo su cui risparmiare, anziché un investimento ad alto rendimento in termini di benessere sociale e crescita economica. Ci troviamo quindi ora con un numero di nascite sceso ai livelli più bassi di sempre e una occupazione femminile bloccata su valori tra i più imbarazzanti in Europa. Non è certo questo l’esito di politiche intelligenti.