Topic: longevità e invecchiamento attivo

La sfida dell’età

La nostra specie è vissuta a lungo in un mondo in cui la durata media di vita era molto breve e una quota esigua di persone arrivava, abbastanza malconcia, in età anziana. Ancora nei primi decenni dell’Italia Unita un bambino su tre non giungeva oltre i cinque anni. Siamo partiti da livelli tra i peggiori in Europa ma da allora i progressi sono stati esaltanti. Il sogno di rendere l’Italia un luogo in cui far nascere figli che possono aspettarsi di attraversare incolumi tutte le fasi della vita e arrivare in buona salute in età anziana, possiamo dire di averlo realizzato. Ad inizio del Novecento la probabilità di un nato di arrivare a 60 anni era inferiore al 45%, mentre è oggi attorno al 95%. Da quando questo grande e lungo cambiamento è iniziato, ogni nuova generazione si è trovata con un bonus di circa 7 anni da vivere in più rispetto ai propri genitori.

La sfida della longevità va oltre l’età pensionabile

Viviamo sempre più a lungo, ma ce ne accorgiamo poco e ancor meno ci stiamo occupando di come spender bene gli anni che ogni nuova generazione aggiunge alle precedenti. Molto più ci stiamo invece preoccupando del trovarci ad andare in pensione più tardi. Detto in altro modo, abbiamo percezione degli effetti della longevità più sul versante negativo, ovvero per gli aggiustamenti necessari sulla tenuta della spesa pubblica, che sulle prospettive che apre nella vita delle persone.

Vecchi contro giovani

Nel 2017 la popolazione del mondo sarà un po’ più anziana rispetto al 2016 e molto più invecchiata rispetto al secolo precedente. L’Italia è, come ben noto, uno dei Paesi più squilibrati dal punto di vista demografico. In particolare, i ventenni italiani risultano nettamente di meno non solo dei cinquantenni, ma anche dei sessantenni e sono destinati a scendere sotto anche ai settantenni. Sempre di più, quindi, nelle decisioni collettive si farà sentire il peso dei più anziani – non più pochi come in passato e non necessariamente saggi – mentre sempre più debole sarà la spinta quantitativa dei giovani.

Il mondo sulle spalle dei 50enni. “Aiutiamoli a lavorare meglio”

Su Repubblica ampio estratto dal libro “Il futuro che (non) c’è. Costruire un domani migliore con la demografia”. 

Stiamo vivendo un passaggio unico nella storia dell’umanità verso una società matura, in cui quelli che in passato venivano considerati anziani (gli over 65) saranno sistematicamente più dei giovani (gli under 25). L’Italia è uno dei paesi che per primi vedranno realizzarsi, già nei prossimi anni, tale sorpasso. Mentre infatti gli under 25, anche come conseguenza della denatalità, si sono attestati su una numerosità attorno ai 14 milioni e continueranno nei prossimi decenni a rimanere sotto tale livello, gli over 65 hanno superato recentemente i 13 milioni e cresceranno fin a superare i 20 milioni entro il 2050.

Ma anche all’interno dell’età attiva si sta producendo un cambiamento strutturale di grande rilievo. Nei prossimi anni vedremo ridursi in maniera consistente la popolazione nella fascia pivotale, quella che attualmente presenta maggiore occupabilità e produttività (in età 35-44 anni). Per converso, invece, aumenterà in maniera rilevante la fascia 55-64 anni che è quella che attualmente riusciamo a valorizzare meno all’interno del mercato del lavoro e che diventa quindi la sfida principale da porsi.

Che sconfitta un Paese salvato dai nonni

Gli anziani hanno due vantaggi particolarmente rilevanti rispetto al resto della popolazione: il tempo e una pensione sicura. I giovani spesso hanno il tempo ma poche certezze sul lato economico. Gli adulti, se sono disoccupati possono avere tempo ma non un reddito certo, se invece sono occupati, magari con figli piccoli, possono avere buone condizioni economiche ma molto poco tempo. Quello che in passato avevano di più giovani e adulti era semmai la salute, ma oggi sessantenni e sessantenni sono in grande maggioranza in buone condizioni fisiche.

Rispetto, poi, agli altri paesi avanzati, gli anziani italiani si distinguono per due aspetti importanti. Il primo è la longevità: più alto è da noi il numero di persone che arrivano in età anziana e più a lunga vi rimangono. Il secondo è la più intensa solidarietà all’interno della famiglia e il più forte legame tra genitori e figli. Molto più che nel resto del mondo sviluppato anziani e figli adulti italiani tendono ad abitare in stretta vicinanza, con frequenti contatti e flussi di aiuto reciproco. Esiste un’ampia disponibilità al mutuo sostegno all’interno delle reti familiari che va tipicamente dai membri delle generazioni più vecchie a quelli più giovani, finché regge la salute dei primi. Dal lato pubblico avviene invece l’opposto. Nel nostro paese i trasferimenti sono più sbilanciati a sfavore delle generazioni più giovani. Se ne trova chiaro riscontro nella spesa sociale: destiniamo più della media europea verso voci che vanno a beneficio delle generazioni più anziane, in particolare per pensioni e sanità, mentre stiamo molto sotto su politiche attive per il lavoro, a favore dell’abitazione e contro l’esclusione sociale. Ma bassi sono anche gli investimenti in formazione terziaria, in ricerca e sviluppo, in misure di conciliazione tra lavoro e famiglia. Questa attenzione a beneficio degli anziani è confermata anche dal recentissimo accordo tra Governo e Sindacati che ha portato ad aggiungere sei miliardi in tre anni per le pensioni. Se si fosse trattato di una revisione della spesa pensionistica nella direzione di renderla più efficiente ed equa, consentendo di dare di più ai pensionati più poveri ma riducendo corrispondentemente i privilegi dei coetanei che ricevono molto più di quanto hanno versato, non ci sarebbe nulla da eccepire.  Ma non è quanto è avvenuto e il rischio che questa misura pesi sulle generazioni più giovani è alto. E’ bene tener presente che, secondo i dati Istat, oggi il rischio di povertà assoluta di un under 35 con famiglia è più del doppio rispetto ad un over 65. Il nostro welfare pubblico continua ad essere uno dei più carenti verso le nuove generazioni, con la necessità dei giovani di dover ricorrere maggiormente alla famiglia di origine come ammortizzatore sociale: si rimane più a lungo a vivere con i genitori e si torna più frequentemente  a vivere con loro finito un contratto di lavoro o dopo un fallimento matrimoniale. Per molte famiglie in difficoltà economica la pensione di un genitore anziano può diventare un fondamentale punto di sostegno. Ma anche coppie in condizioni normali possono avere maggior necessità dell’aiuto dei genitori anziani rispetto agli altri paesi. Se gli asili nido mancano o hanno orari poco flessibili o hanno costi eccessivi, l’aiuto dei nonni diventa indispensabile. Ma anche quando d’estate non ci sono le scuole o quando c’è uno sciopero degli insegnanti o dei mezzi pubblici o semplicemente quando c’è da fare una commissione in posta, il nonno può semplificare fortemente la vita.

Ma può funzionare un paese così? Un paese che compensa le proprie inefficienze pubbliche con la privata messa a servizio permanente ed effettivo dei nonni? Un paese che fa dipendere dalla disponibilità dei nonni la decisione di avere o meno un figlio? Un paese che rende meno drammatici i rischi di povertà delle famiglie solo con la pensione di un proprio membro? E quando i nonni non ci sono, sono lontani o non in buona salute?

La grande rilevanza che hanno assunto i nonni è certo una dimostrazione del loro valore ma anche di quanto il nostro paese abbia adottato negli ultimi decenni uno schema di welfare difensivo. Una difesa che va a discapito sia delle opportunità delle nuove generazioni – non fornite di strumenti adeguati per spingersi in attacco – sia della piena valorizzazione della fase della vita che va dai sessanta agli ottanta, un’età che può essere molto appagante se vissuta senza vincoli di ruolo.

In particolare, non è vero che dove maggiori sono i servizi pubblici per le famiglie con figli piccoli si indebolisce la relazione tra generazioni. Avviene anzi il contrario. Dove il ricorso ai nonni è una scelta e non un obbligo, le relazioni tendono ad essere più diversificate e appaganti, con reciproco beneficio sia per i nonni che per i nipoti. Gli studi su questo campo mostrano come le ricadute siano positive sia sul benessere emotivo che sulle competenze sociali e cognitive per entrambi. Detto in altre parole, un’Italia che funziona meglio e non dipende troppo dai nonni, aiuta anche i nonni a vivere meglio la propria vita, senza eccesso di vincoli ma con il piacere di poter dare il proprio libero contributo alla cura e alla crescita delle nuove generazioni nella forma che preferiscono.