Topic: welfare e innovazione sociale

Le sei “p” del nuovo welfare

C’è stata una fase nella storia di questo paese in cui tra crescita economica, welfare e demografia si è innescato un circuito virtuoso che ha portato al rialzo le condizioni di benessere materiale e di fiducia sociale. E’ stato il periodo che ha visto protagonista la generazione entrata in età adulta nel periodo della ricostruzione e nel corso del quale si è socializzata la generazione dei baby boomers.

Quel modello sociale e di sviluppo oggi non esiste più e uno dei motivi per cui economia e demografia inciampano l’una sull’altra, anziché spingersi a vicenda, va attribuito ad un welfare allo stesso tempo inadeguato e superato.

Quel sistema di protezione sociale era basato quasi esclusivamente sull’azione pubblica, con un approccio prevalentemente assistenzialistico e risarcitorio. Se oggi non funziona più, sia nel difendere da vecchi rischi che nel prevenire i nuovi, non è solo per i costi diventati insostenibili, ma ancor più per il fatto che le rigide risposte fornite dall’alto sono sempre meno in grado di dare una risposta completa ed efficace, in sintonia con l’evoluzione della domanda dal basso.

A questa inefficienza si è risposto, nel nostro paese, più tagliando  la spesa pubblica che innovando l’azione sociale. Ma i bisogni non sono certo diminuiti. Le trasformazioni demografiche, sociali e del mercato del lavoro hanno fatto emergere nuovi rischi. L’inadeguatezza delle risposte a questi cambiamenti ha portato sia ad un aumento delle disuguaglianze che a una riduzione del benessere complessivo della popolazione. Situazione aggravata dalla crisi che ha fatto crescere la vulnerabilità del ceto medio e frenato le scelte virtuose delle famiglie.

Più che tagliare è quindi necessario aprire una nuova stagione di politiche sociali in grado di rinnovare e rilanciare, sostenendo, da un lato, le persone nei percorsi che alimentano il benessere personale e familiare, ma anche continuando, d’altro lato, a proteggere dal rischio di scivolare in spirali di progressivo impoverimento. In questi ultimi casi, come mostrano molti studi, se non si interviene per tempo si genera uno “svantaggio corrosivo” che va ad intaccare profondamente la capacità di reagire e risollevarsi.

Abbiamo quindi bisogno urgentemente di un nuovo welfare che metta al centro la persona, non prendendosi in carico passivamente dei bisogni ma supportandone sviluppo umano e inclusione sociale. I risultati migliori li ottengono, del resto, le politiche sociali che considerano i cittadini come persone responsabili e attive, in grado non solo di porre domande ma anche di contribuire a fornire risposte.

In sintesi, il nuovo welfare andrebbe incardinato su sei “p”. Tre riferite agli obiettivi da affidargli: proteggere chi sta peggio, prevenire dai rischi di peggioramento, ma anche promuovere lo star meglio. E tre “p” corrispondenti agli attori da mettere assieme in campo: oltre al pubblico, anche il privato sociale e la partecipazione dei cittadini. L’insieme di tutti questi fattori sta alla base di un welfare comunitario che stimola l’innovazione sociale sul territorio puntando a favorire coesione e capacità generativa delle comunità locali, a consolidare i legami di fiducia, a dar sostegno alla propensione alla condivisione e alla corresponsabilità verso il bene comune.

Nel suo recente Rapporto annuale l’Istat ritrae le nuove generazioni, quelle nate dagli anni Ottanta in poi, come vittime di un vecchio sistema di welfare che non funziona più. Dobbiamo invece sempre più pensare ad esse, per sensibilità e competenze, come principali protagoniste di un nuovo sistema sociale più in linea con le trasformazioni in corso e con le sfide dei tempi nuovi. Un welfare che metta assieme sia innovazione che inclusione, nel quale i cittadini siano allo stesso tempo destinatari e produttori di nuovo benessere. Parte centrale di un modello sociale e di sviluppo in cui nessuno, a partire dal pubblico, si deresponsabilizza, e che anzi incentiva tutti a fare un passo avanti, verso un futuro comune e condiviso

Perché il bonus bebè non è un incentivo

Magari bastassero le buone intenzioni per risollevare la cronica denatalità italiana. Per riuscirci serve molto di più, a partire da una potenziata capacità di lettura della realtà in mutamento, passando per una maggiore disponibilità a mettere in discussione quello che in passato non ha funzionato, per arrivare ad una più ampia visione e condivisione dell’azione politica.

Meno trentenni e culle più vuote

Viviamo sempre più a lungo e conseguentemente si espandono i tempi di tutte le fasi della vita. Ma non tutto si può posticipare senza rischio di rinunce definitive. E’ il caso della scelta di diventare madre. Secondo i dati del “Rapporto giovani” dell’istituto Toniolo meno dell’8 percento delle ragazze attorno ai 20 anni esclude in futuro di avere figli. Quando però poi si arriva a 50 anni una quota decisamente maggiore si trova ad aver di fatto rinunciato definitivamente a tale scelta. La percentuale, secondo le stime Istat, di donne mai diventate madri è salita da circa il 10 percento per la generazione del 1950 a oltre il 20 percento della generazione nata nel 1970.

Un motivo oggettivo sta nel fatto che nelle nuove generazioni Il tempo disponibile per avere figli si è ridotto all’interno di una fase della vita che si è, peraltro, notevolmente complicata. Sempre più ragazze, in misura anche maggiore rispetto ai maschi, estendono la propria formazione fino alla laurea. Il trovare un buon lavoro ha sostituito il trovare un buon partito nei motivi di indipendenza economica dai genitori. ‘L’instabilità dell’occupazione, assieme all’incertezza nelle relazioni affettive, porta sempre più oltre i 30 anni il momento in cui si inizia a mettere solide basi di una propria famiglia. Nel frattempo, però, il limite conclusivo del periodo fertile è rimasto pressoché immobile. L’età media alla menopausa è poco sopra i 50 anni, ma già dopo i 45 le possibilità di avere un figlio sono irrisorie. Avendo spostato tutto il percorso adulto dopo i 30, il momento riproduttivo centrale è diventato quello tra i 30 e i 34 anni, con una possibilità di recupero dopo i 35 che però diventa una strada in salita. I dati più recenti ci dicono che oggi una nascita su tre si realizza nella classe di età 30-34 e che la classe 35-39, con il 25% dei nati, supera quella tra i 25 e i 29 (23%). Questo vale ancor di più per le cittadine italiane che concentrano tra i 30 e i 39 anni quasi i due terzi nelle proprie nascite. Lo slittamento in avanti del punto di inizio della vita feconda, in combinazione con la rigidità del punto finale, ha quindi ristretto notevolmente lo spazio strategico di accesso all’esperienza della maternità. Nel contempo tale spazio si è anche riempito sempre di più di investimento lavorativo e professionale. Siamo così uno dei paesi avanzati in cui si arriva più tardi a cercare di avere un figlio ma anche, come ben noto, uno di quelli più carenti di strumenti per la conciliazione tra lavoro e famiglia. La conseguenza di tutto questo è che più facilmente ci si trova a rinunciare ad avere figli o a limitarsi ad un figlio solo.

Fino a qualche anno fa, tuttavia, la consistenza numerica delle trentenni era ampia e questo ha limitato la caduta della quantità complessiva di nascite nel Paese. Stiamo ora però entrando in una nuova fase, in cui le potenziali madri sono esse stesse in riduzione perché provengono dalle generazioni nate dopo il 1985, quanto la fecondità italiana è precipitata ai livelli tra i più bassi al mondo. L’Italia rischia quindi oggi di scivolare in una trappola demografica: meno figli ieri equivalgono a meno madri oggi e quindi ad ancor meno figli domani se le condizioni non cambiano.

Come uscire allora da questa trappola? Soprattutto togliendo le donne stesse dalla condizione di intrappolamento nella quale si sono sempre più trovate negli ultimi decenni e consentendo, in tempi meno tardivi e alla più alta espressione, la realizzazione delle loro scelte professionali e di vita. Più tardiamo ad agire in questa direzione più pesanti saranno i costi futuri.

Le diseguaglianze che corrodono benessere e salute

La sfida del vivere a lungo e bene è una vittoria molto recente. Ancora un secolo e mezzo fa le condizioni di salute e i livelli di sopravvivenza a Milano non erano dissimili da quelli dei paesi oggi più arretrati del pianeta. Dobbiamo quindi essere molto soddisfatti di come viviamo oggi. I rischi di morte sono fortemente diminuiti a partire dalle età infantili. Nel secondo dopoguerra la mortalità è progressivamente scesa su valori bassissimi lungo tutta la fase adulta. Dagli anni Ottanta in poi i miglioramenti si sono concentrati in età anziana.

Spegnere la povertà educativa per illuminare il futuro

Difficile pensare ad un futuro migliore se si lascia che ampia parte delle nuove generazioni cresca in condizioni di deprivazione e di frustrazione. Un rischio particolarmente elevato in Italia come mostra l’Atlante dell’infanzia presentato la scorsa settimana da Save the Children.