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Il terremoto demografico in corso in Italia

In Italia è in corso un terremoto demografico. Non ce ne preoccupiamo troppo perché la struttura demografica di una popolazione muta lentamente, ma gli effetti sono poi implacabili. Il possibile crollo o meno di un edificio a seguito di un terremoto dipende dall’entità dei danni sulle strutture portanti. Nel caso di una popolazione il pilastro portante è costituito dalle età centrali adulte, quelle che maggiormente contribuiscono alla crescita economica e al finanziamento del sistema di welfare pubblico.

A mettere a repentaglio questa struttura non è l’aumento della longevità, che consente alle nuove generazioni di spingersi sempre più in avanti rispetto alle fasi della vita. La sfida che essa pone è, semmai, quella di aggiungere qualità agli anni in più guadagnati. Se, infatti, la popolazione nelle età centrali lavorative rimane consistente e migliorano le opportunità di lunga vita attiva, la longevità oltre che essere un processo positivo è anche sostenibile. Ciò che produce squilibri nella popolazione è invece la riduzione del contingente iniziale di ciascuna nuova generazione, ovvero la diminuzione delle nascite. La denatalità italiana ha prima ridotto la popolazione infantile, poi quella giovanile e ora sta iniziando a erodere sempre più anche le età adulte.

Se quindi finora il processo di invecchiamento della popolazione è stato sorretto da una presenza solida di popolazione nell’asse portante dell’età attiva, nei prossimi anni non sarà più così. In particolare le classi centrali lavorative andranno progressivamente a indebolirsi come mai in passato. Tutto questo avverrà più in Italia che altrove in Europa perché, a parità di longevità (sui livelli dei paesi più avanzati), il crollo delle nascite è stato da noi più rilevante e persistente.

Il rischio è quello di veder indebolire progressivamente il pilastro produttivo del Paese per il combinarsi di un basso peso demografico con una bassa partecipazione effettiva al mercato del lavoro. Attualmente la fascia d’età centrale della vita attiva del Paese è quella tra i 40 e i 44 anni. Tra dieci anni si sposteranno in tale posizione cruciale gli attuali 30-34enni che risultano essere oltre un milione in meno. Quest’ultima classe di età presenta però anche un basso tasso di occupazione (68,4%, dato riferito al 2018), sia rispetto agli altri paesi europei (la media Ue-28 è pari all’80,0%), sia rispetto alle generazioni precedenti alla stessa età. In particolare, gli attuali 40-44enni italiani presentavano un tasso di occupazione pari a 74,8% dieci anni fa (quanto avevano 30-34 anni).

Il campanello d’allarme – come mostra dettagliatamente il report di Laboratorio futuro dell’Istituto Toniolo – non viene suonato solo dalle condizioni oggettive (l’Italia presenta anche una delle più basse percentuali di laureati e più alta incidenza di Neet in Europa nella fascia 30-34 anni), ma anche dalla percezione che i giovani-adulti stessi hanno della loro condizioni e delle loro prospettive. Oltre uno su quattro teme di trovarsi senza un lavoro quando avrà 45 anni. Spiccata è però anche la differenza per titolo di studio, in particolare il rischio percepito di doversi rassegnare a non avere una occupazione al centro della vita adulta è tre volte tanto per chi si è fermato alla scuola dell’obbligo rispetto ai laureati.

Da qui bisogna allora ripartire, ovvero da percorsi solidi di formazione e da efficienti servizi, alla pari delle migliori esperienze degli altri paesi avanzati, che consentano alle persone di riqualificarsi e reinserirsi attivamente nel mondo del lavoro. Ed è soprattutto tempo di prendere consapevolezza del fatto che il problema non è tanto il lavoro che manca ai giovani, ma la presenza qualificata delle nuove generazioni che sta diventando sempre più scarsa nei nostri processi di produzione di ricchezza e benessere.

Culle vuote, aule ancor di più

La demografia è strettamente interdipendente, sia in termini di cause che di conseguenze, con il benessere sociale ed economico di un territorio. Se gli indicatori che riguardano la popolazione prendono una inclinazione negativa è tutto il paese che ne risente e viene trascinato verso il basso. In particolare, lo stato di salute e di benessere di una società e di una economia dipendono dalla consistenza quantitativa delle nuove generazioni e dalle possibilità di un loro qualificato contributo ai processi di sviluppo e innovazione.

Per lunga parte della storia dell’umanità, fino a qualche generazione fa, le classi giovanili hanno rappresentato la componente più abbondante della popolazione. Ancora ad inizio del secolo scorso, oltre un cittadino italiano su tre aveva meno di 15 anni e oltre la metà aveva meno di 25 anni. All’inizio del secolo attuale tali valori risultavano dimezzati. Oggi la prima fascia di età conta poco più del 13% e la seconda meno del 24%.

Più che dalla longevità in sé, gli squilibri demografici sono prodotti dalla persistente bassa natalità. In particolare quando la fecondità scende sensibilmente e sistematicamente sotto tale livello, come nel caso italiano, ogni nuova generazione viene ridimensionata rispetto alla precedente. Di fatto si ottiene un processo di “degiovanimento”, vale a dire una progressiva riduzione della popolazione più giovane. Il confronto con la Francia è molto istruttivo, perché la longevità di tale paese è molto simile a quella italiana e anche il numero di anziani è comparabile, ma il loro numero di giovani è marcatamente superiore. Questa differenza si deve soprattutto al diverso andamento della fecondità, rimasta vicina alla media di due figli in Francia, mentre è crollata molto sotto a un figlio e mezzo (1,32 è il dato del 2018) in Italia. Se, come abbiamo detto, gli under 25 italiani sono oggi meno del 24%, i coetanei d’oltralpe sono oltre il 30%.

Secondo le previsioni delle Nazioni Unite, tale valore è previsto ridursi ulteriormente nel nostro paese, almeno fino all’orizzonte del 2035 (scendendo sotto il 20%). Va però considerato che lo scenario della natalità è stato negli ultimi anni peggiore del previsto.

Nel 2018 le nascite in Italia sono state 449 mila. Si tratta del punto più basso di un processo di continua riduzione che negli anni della recessione si è inasprito. Rispetto al 2008 i bambini iscritti per nascita all’anagrafe sono circa 130 mila in meno. I nati da entrambi i genitori italiani sono stati meno di 360 mila nel 2017, con una riduzione di oltre 120 mila nei confronti del dato pre-crisi. Ma va registrata anche una diminuzione di quasi 10 mila di nati con almeno un genitore straniero, scesi nel complesso sotto i 100 mila.

Se il contributo dell’immigrazione è in riduzione, l’incidenza rimane elevata, poco superiore al 20% del totale dei nati (ma con valori superiori al 30% in alcune regioni del Nord). Le comunità straniere che contribuiscono maggiormente, rappresentando assieme oltre la metà dei nati da genitori non italiani, sono nell’ordine quella dei rumeni, dei marocchini, degli albanesi e dei cinesi.

Un altro dato di rilievo è l’accentuazione della riduzione delle nascite, anche al netto della componente migratoria, nelle aree del paese in maggiori difficoltà economica, con più basse opportunità di lavoro per le nuove generazioni, con meno efficienti servizi di welfare.

Il tasso di fecondità più basso è quello della Sardegna (1,06) mentre quello più alto corrisponde alla Provincia di Bolzano (1,74) seguita dalla Provincia di Trento (1,49). Eppure il numero medio desiderato di figli in Italia continua ad essere vicino a due e ad essere ancora più alto nel Sud. Mancano però le condizioni favorevoli per un riallineamento verso l’alto delle scelte di vita. E’ interessante notare che alcune regioni, soprattutto del Nord, avevano mostrato un rilevante aumento prima della crisi economica. In particolare Lombardia ed Emilia Romagna erano salite da valori attorno a 1 a livelli vicini a 1,5 dal 1995 al 2008. Questa crescita non si è verificata nel complesso del Mezzogiorno. Come conseguenza ora molte regioni del Sud si trovano con un numero medio di figli per donna sotto la media nazionale.

Se l’impatto negativo della crisi economica sulle nascite è stato maggiore del previsto (lo scenario centrale delle proiezioni Istat con base 2011 indicava un numero di nascite che si manteneva sopra il mezzo milione), si aggiungono oggi due preoccupazioni. In primo luogo per il rischio che l’impatto congiunturale della crisi porti a conseguenze irreversibili sulle scelte delle famiglie. Se le coppie che nel periodo di crisi hanno congelato le proprie scelte di allargamento della famiglia non recuperano in questi anni, rischiano di veder definitamente trasformarsi il rinvio in rinuncia. Il secondo motivo è il fatto strutturale che siamo entrati in una fase di riduzione delle potenziali madri (come conseguenza della persistente denatalità passata), questo significa che da un basso numero medio di figli per donna si ottengono ancor meno nascite che in passato perché diventano di meno le donne in età riproduttiva (le potenziali madri). Questo dovrebbe ancor più incentivare a mettere le attuali coppie che entrano in età adulta (di meno che in passato) nelle condizioni di realizzare in pieno i propri obiettivi di vita. Che sia possibile invertire la tendenza lo mostrano le politiche familiari realizzate dalla Germania e da alcuni paesi dell’Est Europa, che hanno puntato ad incentivare con misure ben mirate sostenute da adeguati finanziamenti (M. Caltabiano e C.L. Comolli, “Declino delle nascite: un problema non solo italiano”, Neodemos, 2019)

Come conseguenza di una persistente denatalità stiamo quindi vivendo la fase più accentuata della nostra storia di riduzione della popolazione giovanile, con una intensità maggiore rispetto al resto d’Europa. Le conseguenze più evidenti degli squilibri demografici prodotti sono quelle riscontrabili concretamente nelle aule scolastiche.

Accentua, inoltre, la spirale del degiovanimento quantitativo e qualitativo, anche la più alta dispersione scolastica dell’Italia rispetto alla media europea e il saldo negativo di giovani qualificati nei confronti degli altri paesi avanzati. Entrambi questi due fenomeni sono più accentuati nelle regioni meridionali, che si trovano quindi con una riduzione degli studenti delle scuole secondarie superiori inasprito dall’abbandono prematuro e con una crescente propensione dei giovani con alte aspirazioni a iscriversi negli Atenei del nord o direttamente all’estero.

Secondo i dati Istat, la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 che hanno lasciato precocemente gli studi (Early leavers from education and training-ELET) è stata nel 2017 pari al 14% a livello nazionale (contro 10,6% media Ue-28). Tra i maschi del Mezzogiorno si sale a ben il 21,5%.

Sia i dati Istat che quelli del Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo, evidenziano come tra i motivi della decisione di non proseguire gli studi si sia ridotto nel tempo quello della volontà di confrontarsi subito con l’esperienza di lavoro, mentre sia in crescita la mancanza di interesse nello studio, soprattutto per chi ha famiglie meno supportive. Nella valutazione che i ragazzi italiani danno ai propri insegnanti, in termini comparativi con gli altri grandi paesi europei, emerge un apprezzamento per la preparazione e le conoscenze dei propri professori, ma anche una più ridotta capacità di far appassionare e fornire stimoli.

Come inoltre evidenzia il Rapporto Svimez 2018: “Nel Mezzogiorno sono presenti livelli qualitativamente inferiori, dai trasporti, alle mense scolastiche, ai materiali didattici. Sul tasso di apprendimento al Sud pesa anche il contesto economico-sociale e territoriale: la disoccupazione, la povertà diffusa, l’esclusione sociale, la minore istruzione delle famiglie di provenienza e, soprattutto, la mancanza di servizi pubblici efficienti influenzano i percorsi scolastici e l’apprendimento”. Oltre al fattore demografico, al “depauperamento del capitale umano meridionale” contribuiscono, quindi, sia le emigrazioni universitarie che il declino del tasso di passaggio all’Università (Rapporto Svimez 2017).

L’aumento della fecondità nel Nord Italia tra il 1995 e l’inizio della recessione, in combinazione con una maggior capacità attrattiva nei confronti dell’immigrazione, consentirà nei prossimi 10 anni alla fascia d’età che corrisponde alla scuola secondaria di secondo grado di non ridursi (anzi di aumentare un po’). Per le fasce più basse e per il Sud le previsioni indicano, invece, una forte contrazione, in alcuni casi con perdite dell’ordine del 20%. Secondo le stime della Fondazione Agnelli “La riduzione della popolazione scolastica comporterà dunque una contrazione degli organici dei docenti, a partire dai gradi inferiori, per un totale di oltre 55.000 posti/cattedre persi” (S. Molina, Scuola. Orizzonte 2028: anticipare il cambiamento per governarlo, Neodemos, 2018).

Il rischio è quello di sprofondare in una spirale negativa di “degiovanimento” quantitativo e qualitativo della società. La carenza di prospettive porta i giovani ad andare altrove già nella fase di formazione o a rinunciare ad investire sulla propria istruzione.

Varie proposte possono essere suggerite nella prospettiva di spezzare tale spirale. L’approccio di fondo è quello di non rispondere alla riduzione quantitativa delle nuove generazioni con un riadattamento al ribasso dell’offerta formativa, ma, al contrario, riattivare un percorso virtuoso di stimolo tra domanda e offerta a partire da un potenziamento qualitativo (che ha ricadute sulla formazione dei giovani, sui progetti di vita, sulla riduzione delle diseguaglianze, sulle famiglie, sul territorio in cui vivono).

Una prima prospettiva è quella di una scuola a misura delle persone, come richiamato da Pierpaolo Triani in queste pagine (P. Triani, “Scuola, oltre il mito delle grandi riforme”, 3/2018). Ad esempio restituendo una “reale regia pedagogica alla vita scolastica, partendo dall’assegnare realmente ad ogni istituto il proprio dirigente e ricominciando a mettere a tema la questione dell’ampiezza delle scuole”.

In coerenza con questa è anche la proposta della Fondazione Agnelli di rispondere alla riduzione degli studenti con un rafforzamento del contrasto all’abbandono scolastici e con aumento del numero medio di insegnanti per classe, favorendo una coprogettazione interdisciplinare.

Infine, è indispensabile dare solide basi ai percorsi delle nuove generazioni, qualsiasi sia la loro condizione e provenienza, attraverso il diritto a un’educazione di qualità fin dalla prima infanzia che può essere garantito da una effettiva implementazione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni (A. Fortunati, A. Pucci, “0-6: lavori in corso. Prove di integrazione”, in Bambini, ottobre 2018). Un’operazione cruciale per potenziare copertura, qualità e continuità della formazione a partire dalla prima infanzia, con ricadute positive anche sulla conciliazione tra lavoro e famiglia, di conseguenza anche sulla natalità.

L’articolo è un estratto dell’articolo “Allarme demografico nelle aule scolastiche” Vita e Pensiero, 4/2019, p.68-72

Quelle scelte tra figli e lavoro che frenano la crescita italiana

Una delle sfide principali che l’Italia deve affrontare nei prossimi decenni è crescere – in termini di ricchezza economica e benessere sociale – in una fase di riduzione senza precedenti della popolazione in età lavorativa. Si potrà vincere tale sfida non solo attraverso l’estensione in verticale della vita lavorativa ma anche migliorando in orizzontale le opportunità di effettiva partecipazione di tutti alla vita attiva del paese.

Il sistema si salva con politiche su immigrazione e natalità

Dal punto di vista demografico, ma non solo, possiamo dividere l’intero pianeta in “partes tres”. La prima parte fino alla metà del secolo scorso coincideva con l’intero mondo, ora raccoglie circa metà degli stati, ma è destinata a trovarsi praticamente vuota alla fine di questo secolo. E’ composta dai paesi con una fecondità superiore ai due figli in media per donna.

Nell’Italia che invecchia creare opportunità di lunga vita attiva

Il modo più sicuro per prevedere qualcosa, suggeriva Ionesco, è semplicemente di attendere che accada. Esiste però un modo migliore, anche se forse meno sicuro, ed è quello di farla accadere. Questo è ciò che invitava a fare Abraham Lincoln, al quale è attribuita la frase “The best way to predict the future is to create it”.

Il secondo modo migliore è quello di usare i dati demografici. Non sappiamo nel 2050 quale sarà il prodotto interno lordo, o la percentuale di famiglie sotto la soglia di povertà, o il tasso di occupazione giovanile, ma siamo in grado con buona confidenza di indicare quanti saranno gli over 65.

Più in generale, possiamo considerare la struttura demografica della popolazione come l’impalcatura solida sulla quale costruire, con lo spirito di Lincoln, il nostro futuro sociale ed economico. Ma se da un lato la demografia aiuta ad anticipare alcuni aspetti del cambiamento, dall’altro è implacabile per chi la ignora e non mette per tempo in atto le scelte giuste.

La carenza di efficaci politiche familiari ha portato l’Italia a ridurre drasticamente le nascite, con un crollo evidente a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. La crisi economica ha peggiorato ulteriormente la situazione, tanto che i nati nel 2018 sono scesi sotto il numero degli ottantenni. Con tali dinamiche, prendendo lo scenario mediano delle previsioni Istat, ci troveremo nell’Italia del 2050 non solo con circa sei milioni di over 65 in più rispetto ad oggi, ma anche con quasi altrettanti abitanti in meno tra i 30 e i 64 anni.

Questi dati ci dicono che i tre decenni che rimangono da attraversare nella prima parte del XXI secolo sono quelli in cui il rapporto tra popolazione anziana e popolazione attiva diventerà più squilibrato. In particolare, il tasso di dipendenza degli anziani salirà dal 36 al 63 percento. Il forte aumento di tale indicatore può essere considerato come una delle poche certezze del nostro futuro. Nello scenario migliore potrebbe fermarsi a 57, in quello peggiore salire al 70 percento, in funzione soprattutto delle dinamiche della natalità e dell’immigrazione. In ogni caso, secondo tutti gli scenari, aumenterà sensibilmente per poi stabilizzarsi nella seconda metà del secolo sugli alti livelli raggiunti. Questa tendenza non vale solo per il sistema paese ma anche all’interno delle singole organizzazioni.

Quella che pone la demografia è, infatti, una sfida collettiva che chiama in causa l’impegno comune per la costruzione di un futuro più solido a partire dalle scelte di oggi. Su come far maturare la giusta consapevolezza siamo pressoché all’anno zero, con l’atteggiamento pubblico nei confronti delle trasformazioni demografiche che continua ad oscillare tra la rimozione e la drammatizzazione. Nella nostra storia recente ci siamo trovati da un lato con governi che guardavano soprattutto all’impatto dell’invecchiamento sulla spesa pubblica, cercando soluzioni che potevano essere utili per la tenuta futura del bilancio ma non necessariamente funzionali nella vita delle persone. Ma anche, d’altro lato, con governi interessati solo al presente, al consenso elettorale, ben disposti ad assecondare reazioni difensive rispetto al cambiamento, perdendo così di vista sia la valorizzazione delle potenzialità dei singoli sia i costi per le generazioni future.

E’ invece necessario adottare ad ogni livello un approccio di base nuovo, che metta al centro le scelte consapevoli dei cittadini e la capacità di generare valore in tutte le fasi della vita. La questione non è, allora, tanto chiedersi oltre quale età bisogna o meno tenere al lavoro le persone, ma come sviluppare e rendere disponibili strumenti culturali e operativi che favoriscano la possibilità di rimanere attivi a lungo e in modo soddisfacente. Serve un approccio win-win-win, che parta però da ciò che funziona con le persone, per passare a ciò che rende più competitive le aziende (comprese quelle piccole e medie), per poi arrivare a ciò che migliora i conti pubblici dello stato. Detto in altro modo, non si tratta di partire dalla spesa pubblica da ridurre, operazione dalla quale non necessariamente derivano maggior qualità del lavoro, maggior produttività, maggior benessere e ricchezza prodotta. Ma puntare, piuttosto, alle opportunità di ciò che crea valore con le persone: favorendo salute e impegno attivo lungo tutto il corso di vita si ottiene anche maggior contributo alla crescita economica e minor costo sociale, con conseguente welfare più sostenibile.

Tale valorizzazione è possibile perché il cambiamento connesso con il processo di invecchiamento non è solo quantitativo ma anche, anzi soprattutto, qualitativo. Mentre la crescita quantitativa è destinata poi a stabilizzarsi, il cambiamento qualitativo è invece un processo in continua evoluzione: è quindi soprattutto a questo secondo che ci si deve preparare, usando l’urgenza posta da primo.

Da quando la transizione demografica ha preso avvio, ogni generazione arriva in età matura in condizioni fisiche e capacità cognitive migliori rispetto alle precedenti. Se, in particolare, la fase dopo i 60 anni va considerato un terreno via via sempre più fertile che in passato, è però anche vero che per dare i suoi migliori frutti deve essere coltivato con nuovi efficaci strumenti. Questi strumenti, che vanno sotto il nome di Age management, sono ancora poco promossi e sviluppati nel contesto italiano. Agire in questa direzione non significa pretendere che chi ha 65 anni sia in grado di fare le stesse cose (e allo stesso modo) di quando ne aveva 45, ma metterlo nelle condizioni di fare meglio e di più rispetto a un 65enne di vent’anni fa. Visto in prospettiva, questo significa consentire agli attuali 45enni di essere, tra vent’anni, nelle condizioni di poter far meglio e di più rispetto ai 65enni di oggi.

Otre ai dati sull’invecchiamento della popolazione, è allora possibile prevedere con una certa sicurezza che le aziende e le economie nazionali più dinamiche e competitive nei prossimi decenni saranno quelle che più stanno investono oggi sul miglioramento di tali condizioni.