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La denatalità mette a rischio il sistema

L’allungamento della vita media è un’opportunità che va favorita con strumenti che consentano a ciascuno di prepararsi ad affrontare al meglio le vari stagioni dell’esistenza umana. L’aumento, invece, del peso demografico della popolazione anziana inattiva tende ad essere un problema, rendendo più debole la crescita economica e più incerta la sostenibilità del sistema sociale.

Son (quasi) tutte vuote le culle d’Italia

Cosa c’è di nuovo nei dati sulla demografia italiana aggiornati al 2017 e di recente pubblicati dall’Istat? Nel 2013 siamo scesi a 513 mila nascite, che allora era il livello più basso della nostra storia nazionale. Ogni anno successivo siamo scivolati però ancora più in basso e questo vale anche per il 2017, che con 464 mila nati ci porta ancora una volta a dire: “mai così pochi dal 1861 a oggi”. Il prossimo anno riusciremo a fare ancora peggio o vedremo finalmente i segnali della ripresa post crisi stimolati e sorretti da adeguate politiche?

Crisi delle nascite, un macigno sul nostro futuro

La fecondità oscilla in Europa da valori attorno ai due figli in media per donna a valori poco sopra un figlio. Quando rimane persistentemente bassa (più vicina a uno che a due figli), il calo delle nascite diventa progressivamente riduzione nelle età giovanili e successivamente erosione della popolazione al centro della vita attiva (asse portante della crescita economica e della sostenibilità del sistema di welfare).

Due casi interessanti da confrontare sono Francia e Italia. I due grandi paesi presentano livelli simili di longevità, livelli simili di preferenze riproduttive, ma dinamiche molto diverse sulla fecondità realizzata. Francesi e italiani partono a vent’anni con un analogo numero di figli desiderato (entrambi poco sopra ai due, come indicano i dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo), ma i primi, nel corso della loro vita, riescono sostanzialmente a raggiungere l’obiettivo, mentre i secondi si trovano progressivamente a rinviare e a rivedere al ribasso le proprie scelte.

La conseguenza è che: a) gli italiani hanno in media il primo figlio dopo i 30 anni, ovvero quando i francesi stanno in media per avere già il secondo, b) il nostro tasso di fecondità totale (pari a 1,34) è circa un terzo sotto il loro (1,96).

Il confronto indica due cose. Che i maggiori squilibri demografici tra i due paesi (figura 1) sono da ricondurre soprattutto alle diverse dinamiche della natalità (che ci portano ad avere oltre 6 milioni di under 35 in meno) e che i più bassi valori italiani non sono da imputare a un più basso desiderio di formare una famiglia con figli. Gli squilibri a livello di popolazione stanno, quindi, soprattutto nella differenza tra quanto si vorrebbe realizzare e quello che effettivamente si riesce a fare nei progetti di vita individuali. E quella differenza è lo spazio di azione delle politiche, carenti e occasionali in Italia e ben mirate e solide in Francia. Insomma il divario nasce da un approccio culturale, a monte, con opportuni strumenti a sostegno delle scelte individuali e di coppia, nel mezzo, da cui derivano i comportamenti riproduttivi, a valle.

Approccio cultuale e servizi fanno la differenza

Sulle differenze a valle abbiamo già detto. L’approccio diverso a monte ha a che fare con l’idea, più presente in Italia, che i figli siano un costo privato dei genitori, contro la convinzione, più consolidata in Francia, che le nuove generazioni siano un bene collettivo su cui investire in modo solido a vantaggio di tutto il paese. Coerentemente, il sistema di tassazione francese rende meno gravosi i costi dell’allevamento di un figlio. Il loro “quoziente familiare”, in particolare, consente di calcolare l’imposta non solo in relazione al reddito complessivo, ma anche in funzione delle persone a carico di quel reddito.

Il sostegno sul versante economico alle famiglie con figli risulta nel complesso più generoso, mentre in Italia risulta sia più debole che più frammentato (una selva di assegni, detrazioni, bonus) e alla fine anche più inefficiente e iniquo, ovvero meno in grado di aiutare davvero le famiglie e ridurre le diseguaglianze di partenza.

La proposta di Matteo Renzi di un bonus figli di 80 euro (per famiglie con minori) può essere utile solo se è alla base di un progetto più ampio di razionalizzazione e maggior stabilità delle misure a favore delle famiglie (nella prospettiva di un “assegno universale unico” come previsto da un disegno di legge in discussione in Parlamento).

Oltre agli aiuti monetari – che vanno soprattutto razionalizzati e meglio mirati – la differenza con la Francia e altri paesi con fecondità meno sofferente, la fanno i servizi. Quello che va potenziato sono soprattutto strumenti che mettono demografia ed economia in relazione virtuosa tra di loro, grazie a un welfare attivo che aiuti a riconnettere lavoro e scelte di vita. In particolare, la carenza di politiche attive (a cominciare da servizi per l’impiego efficienti) contribuisce a far scivolare molti giovani nella condizione di Neet (o a mal collocarsi nel mondo del lavoro), con il conseguente rinvio dell’autonomia dai genitori e della formazione di una propria famiglia. Non è un caso se siamo uno dei paesi con maggior crollo della fecondità under 30 e maggior rinvio del primo figlio. Quando poi arriva il primogenito, le coppie italiane si scontrano con carenti politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia, in particolare con un meno diffuso e meno accessibile (per costi e orari) sistema di servizi per l’infanzia (il tasso di copertura italiano è la metà di quello francese). Non vale solo per il lavoro dipendente, come confermano le richieste di “Donne Impresa” di Confartigianato.

L’impegno a rendere più solido il futuro

Misure di questo tipo dovrebbero diventare la priorità non solo per la denatalità, ma anche per ridurre le diseguaglianze e per una più solida crescita del paese. Consentono, infatti, ai cittadini di realizzare meglio i propri obiettivi di vita e alle famiglie con figli di proteggersi dal rischio di povertà. Ma aiutano anche a contenere gli effetti dell’invecchiamento della popolazione, a renderne più sostenibili i costi e a rafforzare la crescita economica aumentando la platea (in particolare nuove generazioni e donne) di chi è attivo e produce ricchezza nel paese.

Ma per andare in questa direzione ci vuole coraggio, che è quello di non promettere nessun euro in più alle pensioni (semmai rendere al suo interno la spesa più efficiente ed equa) e investire tutto quello che serve per rendere più solido il paese con le nuove generazioni. C’è qualche forza politica pronta a prendersi questo impegno?

QUI L’ARTICOLO PUBBLICATO SU LA VOCE

L’Italia senza culle che può salvarsi grazie agli immigrati

L’immigrazione non è troppa se si guarda alla componente regolare (quella nettamente prevalente) e alle necessità di crescita (non solo demografica) del nostro Paese. Anzi, è meno di quanto avremmo teoricamente bisogno per compensare gli squilibri autoprodotti dall’accentuata denatalità. Possiamo anche decidere che non vogliamo immigrati e loro discendenti sul nostro territorio, ma è bene aver presente le implicazioni che ne derivano. Un modo per acquisire consapevolezza è quello di vedere come sarebbe oggi la nostra popolazione se non ci fossero stati flussi con l’estero. Per costruire tale scenario ipotetico facciamo coincidere i nati 50 anni fa con i cinquantenni di oggi, i nati 49 anni con i 49enni di oggi, e così via. Nel secolo scorso le nascite straniere erano una quota molto esigua sulle nascite totali, quindi i dati forniti da tale scenario – limitandoci alla fascia 15-50 anni – restituiscono un ritratto sostanzialmente fedele della popolazione italiana attuale se, appunto, le frontiere fossero rimaste chiuse dalla seconda metà degli anni Sessanta ad oggi. I valori ottenuti ci dicono che i 50enni sarebbero ora quasi un milione, i 40enni meno di 800 mila, i 30enni poco più di 550 mila, e ferme attorno a tale livello anche le classi ancor più giovani. Si tratta, di fatto, di un dimezzamento generazionale in 20 anni.

Qual è stato l’impatto dell’immigrazione? Se prendiamo la popolazione realmente residente oggi in Italia e la confrontiamo con lo scenario teorico precedente vediamo che la popolazione dei 40enni si alza su valori abbastanza vicini al dato dei 50enni. Il crollo, invece, delle nascite nei decenni successivi, in particolare dalla seconda metà degli anni Settanta, risulta molto maggiore rispetto all’azione di compensazione fornita dall’immigrazione. Nello specifico, i 35enni, circa 620 mila senza immigrazione, sono invece oggi 735 mila grazie ai flussi di entrata dall’estero. Quest’ultimo valore risulta, però, non solo ben sotto agli attuali 40-50enni, ma anche inferiore rispetto al dato dei 60enni. I 30enni salgono, con il contributo degli stranieri residenti, attorno a 650 mila. Nonostante ciò la perdita risulta pari a uno su tre rispetto ai cinquantenni, e rimangono inoltre sotto anche agli attuali 70enni. Ancor peggiore la situazione degli under 30.

Se guardiamo alle dinamiche ancor più recenti, ovvero all’andamento della natalità negli ultimi anni, si nota come i figli dei residenti stranieri abbiano consentito di contenere la caduta delle nascite italiane ma è altresì vero che il loro apporto risulta sempre più insufficiente. Nonostante tale contributo il 2016 è stato, del resto, l’anno con il record negativo di nati in Italia dall’Unità ad oggi.

Questi dati, nel complesso, mostrano come con frontiere chiuse gli squilibri demografici risulterebbero oggi molto più accentuati, ma evidenziano anche come l’immigrazione sia rimasta largamente al di sotto rispetto a quanto teoricamente servirebbe per riequilibrare la composizione per età della popolazione italiana.

Questo deficit demografico, prodotto dalla denatalità e solo parzialmente compensato dai flussi migratori netti, rischia di pesare negativamente sul nostro futuro più del debito pubblico. Oggi non ne abbiamo chiara percezione, per l’effetto della crisi economica che ha ridotto i posti di lavoro, ma ancor più perché l’asse centrale del mondo produttivo è ancora composto dalle generazioni quantitativamente molto consistenti dei 40-50enni. Nel corso dei prossimi due decenni, però, i copiosi 50enni diverranno pensionati 70enni, mentre i demograficamente scarsi 30enni (e ancor meno 20enni) andranno via via ad occupare le posizioni centrali del mercato del lavoro. Chi vuole chiudere le frontiere deve dire come gestirà questo tracollo della popolazione attiva e il consistente aumento di anziani inattivi (che assorbiranno risorse per pensioni, assistenza privata e sanità pubblica). Nel contempo bisognerà far tornare a crescere le nascite e l’occupazione femminile, investendo ancor più di quanto fatto sinora sugli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia. Ma gli effetti del rialzo delle nascite sul rinforzo delle età lavorative li vedremo tra vent’anni. Se non vogliamo scivolare in condizioni ancora peggiori è fondamentale agire subito, ma nel frattempo serve anche altro. Non si può prescindere dall’aumentare occupazione giovanile ed età al pensionamento, ma il punto centrale sarà l’indebolimento progressivo dell’asse portante della nostra economia, quello costituito dalla popolazione tra i 35 e i 49 anni. Tale fascia è attualmente quella con più alta occupazione e più alta produttività. Difficile pensare di potenziarla senza attrarre nuova immigrazione. La demografia si ferma qui. “Quale” immigrazione e “come” includerla efficacemente nel nostro modello sociale ed economico è questione che riguarda la politica.

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Popolazione italiana in età 15-50. Confronto tra situazione attuale e teorica nel caso di zero migrazioni nette (coincidente con le corrispondenti nascite italiane da 50 a 15 anni fa)  

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Nascite in Italia per cittadinanza

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La sfida dell’età

La nostra specie è vissuta a lungo in un mondo in cui la durata media di vita era molto breve e una quota esigua di persone arrivava, abbastanza malconcia, in età anziana. Ancora nei primi decenni dell’Italia Unita un bambino su tre non giungeva oltre i cinque anni. Siamo partiti da livelli tra i peggiori in Europa ma da allora i progressi sono stati esaltanti. Il sogno di rendere l’Italia un luogo in cui far nascere figli che possono aspettarsi di attraversare incolumi tutte le fasi della vita e arrivare in buona salute in età anziana, possiamo dire di averlo realizzato. Ad inizio del Novecento la probabilità di un nato di arrivare a 60 anni era inferiore al 45%, mentre è oggi attorno al 95%. Da quando questo grande e lungo cambiamento è iniziato, ogni nuova generazione si è trovata con un bonus di circa 7 anni da vivere in più rispetto ai propri genitori.