Tagged: demografia

Inutile girarci attorno: niente figli, niente futuro

Non siamo esseri immortali. Il mondo evolve attraverso il ricambio generazionale. Se facciamo pochi figli la popolazione tende ad invecchiare in modo insostenibile rispetto alla possibilità di creare ricchezza e benessere. Lo slogan del “Ferility Day” che invitava a considerare la fertilità (ovvero la capacità riproduttiva dei singoli) un bene comune è discutibile, dovremmo invece considerare le nuove generazioni come una ricchezza collettiva da accrescere e valorizzare.

Altro errore è far sentire in colpa chi non ha bambini. Non bisogna agire sul sentirsi in dovere di generare, ma sulla possibilità di realizzare con successo scelte desiderate. Ciò significa far sì che chi desidera avere un figlio possa trovare un contesto che lo incoraggi e lo sostenga in tale scelta. In Italia invece l’avere figli è considerato un costo privato, non a caso siamo uno dei Paesi in cui meno si fanno figli ma più alto è anche il rischio di povertà di chi li ha.

La fertilità, l’attitudine fisica a concepire, è quindi un aspetto privato, da gestire con assoluta libertà di scelta. Ma il bene delle nuove generazioni deve riguardare tutta la collettività, a partire dalle politiche pubbliche (un tema cruciale approfondito su: A.Rosina, S.Sorgi, Il futuro che (non) c’è, Bocconi editore, 2016). La crisi demografica più di ogni altra rivela come l’Italia stia attraversando una fase delicata e problematica rispetto alla capacità di dare basi solide e prospettive prosperose al proprio futuro. L’indicatore più sensibile ai livelli di fiducia sociale e di incoraggiamento a fare scelte di impegno positivo verso il domani è proprio la natalità.

La scelta di avere un figlio va, infatti, allo stesso tempo intesa come conferma del senso di appartenenza alla comunità in cui si vive e di impegno positivo verso il futuro. Il bello del mondo di oggi, rispetto al passato quando si davano per scontati, è che ora i figli si scelgono. Il brutto, invece, è che non stiamo favorendo le condizioni perché tale scelta – pur desiderata e socialmente virtuosa – possa essere pienamente realizzata arricchendo le vite delle famiglie italiane e rendendo più solida la nostra società.

Il dato recente sul numero di nascite annue sotto il mezzo milione, risulta particolarmente negativo per vari motivi: perché equivale a meno della metà dei nati negli anni Sessanta, perché si tratta del valore più basso dall’Unità d’Italia ad oggi, perché è il quarto anno consecutivo che battiamo tale record negativo.

Ciò che caratterizza il nostro Paese non è solo l’essere uno dei Paesi meno prolifici, ma la persistenza della fecondità su valori molto bassi: da oltre tre decenni il numero medio di figli per donna è sotto la soglia di uno e mezzo. Difficilmente si trova un Paese in tali condizioni. Le regioni del Nord Italia, sono state precursori di questa revisione al ribasso delle scelte riproduttive. Se nel complesso del Paese il tasso di fecondità totale è sceso sotto il valore di 2 nel 1977 e sotto il valore di 1,5 nel 1984, arrivando poi al punto più basso nel 1995 con 1,19 figli, in Lombardia già nel 1979 si era caduti sotto un figlio e mezzo per scivolare ulteriormente fino a 1,07 a metà anni Novanta. È però vero che a partire dalla metà degli anni Novanta è iniziato un percorso nuovo che ha visto per la prima volta le regioni del Nord e quelle del Sud seguire percorsi diversi. L’area centro-settentrionale ha avviato un processo di lenta progressiva crescita, mentre il meridione ha proseguito un processo di tendenziale declino. L’esito di tali due opposte dinamiche ha portato prima all’annullamento del secolare vantaggio riproduttivo del Sud e successivamente ad un inedito sorpasso del Nord.

È però importante tener presente che il numero medio di figli desiderato non è invece mai sceso sotto il valore di 2, questo vale anche per le generazioni più giovani come mostrano i dati del “Rapporto Giovani” dell’Istituto Toniolo. Se ne deduce che nelle regioni del Nord le condizioni sono state relativamente più favorevoli per la realizzazione della scelta di un figlio in più rispetto al resto d’Italia (ma non rispetto al resto dei Paesi sviluppati), mentre nell’area meridionale le maggiori difficoltà dei giovani a trovare lavoro e formare nuove coppie, in com- binazione con una più carente rete di servizi per l’infanzia, hanno compresso la fecondità verso il basso.

Il legame oggi più stretto e diretto tra economia, welfare e demografia sembra trovare conferma anche dall’impatto della grande crisi iniziata nel 2008. Un effetto negativo sulle nascite si osserva in tutta Europa, ma con maggior accentuazione sul nostro paese. In un contesto già problematico come quello italiano, si sono ristretti i fondi pubblici a favore dei servizi di conciliazione; sono cresciute le coppie in difficoltà economica; i giovani hanno trovato ancor più difficoltà a formare nuovi nuclei familiari; ma oltre ai motivi economici e strutturali, è aumentata l’incertezza verso il futuro. La moderata ripresa delle nascite si è così negli ultimi anni fermata, anche nelle regioni del Nord, in attesa di tempi migliori e politiche lungimiranti.

Non c’è, in molti casi, una vera rinuncia ad avere un figlio. Spesso la scelta positiva – soprattutto in condizione di contesto culturale e strutturale poco favorevole – rimane ferma in un punto indefinito del processo decisionale senza mai veramente sbloccarsi. Via via però che il tempo passa e che l’età avanza, da un lato ci si adatta ad uno stile di vita fatto di abitudini che si ha sempre meno voglia di rimettere in di- scussione, d’altro lato, soprattutto sul versante femminile, ci si accorge che avere un figlio è sempre più difficile e complicato anche perché gli anni più fertili sono passati.

L’evidenza di tutto questo la si trova nel fatto che la quota di donne che arrivano ai 50 anni senza figli è raddoppiata rispetto alle generazioni precedenti, salendo oltre il 20%. Tale valore può aumentare ancor di più se la crisi economica porta alcune strategie adattive a diventare vincoli verso il basso. Negli anni più recenti è, infatti, aumentato soprattutto il numero di donne arrivate attorno ai 35 anni senza figli. Se esse non incroceranno in tempi brevi le condizioni per recuperare i loro progetti di vita, la discesa congiunturale delle nascite negli anni di crisi rischia di trasformarsi in rinuncia definitiva.

Vecchi contro giovani

Nel 2017 la popolazione del mondo sarà un po’ più anziana rispetto al 2016 e molto più invecchiata rispetto al secolo precedente. L’Italia è, come ben noto, uno dei Paesi più squilibrati dal punto di vista demografico. In particolare, i ventenni italiani risultano nettamente di meno non solo dei cinquantenni, ma anche dei sessantenni e sono destinati a scendere sotto anche ai settantenni. Sempre di più, quindi, nelle decisioni collettive si farà sentire il peso dei più anziani – non più pochi come in passato e non necessariamente saggi – mentre sempre più debole sarà la spinta quantitativa dei giovani.

Calo delle nascite. I rischi di un Paese senza fiducia nel futuro

I dati più recenti dell’Istat sulle nascite dovrebbero preoccuparci seriamente, perché – sia guardando alle cause che alle conseguenze – ci dicono che stiamo smantellando le basi su cui ogni società fonda la speranza di un proprio futuro migliore. Il succedersi delle generazioni è l’elemento chiave della dinamica demografica e quindi della continuità del genere umano. Ogni generazione produce, nel corso del proprio corso di vita, beni materiali ed immateriali. Ma c’è un bene ancora più importante rispetto ai flussi economici, sociali e culturali intergenerazionali, si tratta, appunto, dalle nuove generazioni stesse. I membri delle nuove generazioni sono le pietre con le quali una comunità costruisce il proprio solido ponte tra l’oggi e il domani: si possono immaginare le merci più belle e preziose da trasportare, ma se il ponte rimane incompiuto, non potranno mai giungere ad alcuna desiderata destinazione futura.

Ripartono i matrimoni. Fine della crisi?

Nei novant’anni di storia del Paese raccontati dall’Istat, nato nel 1926 con il nome di Istituto Centrale di Statistica, il punto più basso dei matrimoni è stato toccato nel 2014 con meno di 190 mila celebrazioni. Nemmeno negli anni più bui della seconda guerra mondiale si era scesi così in basso. Molto vivace era stata, allora, la successiva ripresa. Dalle 215 mila nozze del 1944 si salì a oltre 385 mila nel 1948. Ma la vera “epoca d’oro del matrimonio” arriva successivamente e corrisponde agli anni che vanno dal 1956 al 1963. E’ una fase in cui l’intero paese si rialza, non solo per la ricostruzione, ma per l’inizio di un nuovo percorso di sviluppo che intreccia crescita economia, welfare in espansione, fiducia nel futuro. Assieme all’economia si alzano anche i matrimoni e, successivamente, le nascite.

Facciamo pochi figli, ma servono più incentivi

E’ vero, gli italiani fanno pochi figli, da molti punti di vista. Ne fanno molti meno rispetto ai francesi, agli americani, agli inglesi, agli svedesi e a gran parte del mondo occidentale. Ne fanno molti meno anche rispetto a quanto considerato auspicabile per un equilibrato rapporto tra generazioni. Il numero medio di figli per donna è infatti persistentemente e marcatamente inferiore a due. Il dato Istat più recente è pari a poco più di un figlio e un terzo. Questo significa che stiamo viaggiando con generazioni di figli via via meno consistenti rispetto a quelle dei genitori. In prospettiva ciò porta, anche tenendo conto dei flussi migratori, a rendere il nostro paese uno di quelli con carico maggiore al mondo di anziani sulla popolazione attiva.