Tagged: famiglie

Calo demografico. Ci sono molti segni positivi per un ritorno delle nascite

Siamo sempre di meno e sempre più vecchi. Questo in estrema sintesi si conferma essere il ritratto della demografia del nostro Paese che emerge dall’ultimo Rapporto annuale dell’Istat. L’immigrazione non risulta più in grado di colmare il sempre più ampio divario tra nascite in riduzione e decessi in aumento. Il motivo principale è l’ormai cronica bassa natalità che porta con sé sia una riduzione della popolazione sia un inasprimento degli squilibri strutturali tra vecchie e nuove generazioni. La grande recessione ha peggiorato un quadro già problematico, confermando quanto le condizioni economiche presenti e l’incertezza sul futuro pesino sull’assunzione di scelte di lungo periodo come la nascita di un figlio. Non è un caso che il nostro Paese sia allo stesso tempo quello con più alto numero di under 30 che dopo gli studi non riescono ad entrare nel mondo del lavoro (i cosiddetti Neet) e quello con fecondità crollata maggiormente prima dei 30 anni.

L’Italia senza nascite

Questo valore è il più basso non solo di questo secolo, ma anche di quello precedente e di quello prima ancora, quantomeno da quando l’Italia è unita. Ma già nel 2013 avevamo fatto meno bambini di sempre. Poi nel 2014 abbiamo ritoccato al ribasso tale valore. Siamo scesi ancor di più nel 2015 e nel 2016 abbiamo fatto ancora peggio. Detto in altre parole, il declino delle nascite italiane oramai non è più una notizia. Intanto però la demografia è implacabile – se non si fanno le scelte giuste per tempo – nell’erodere i margini del nostro futuro. E come lo fa?

Inutile girarci attorno: niente figli, niente futuro

Non siamo esseri immortali. Il mondo evolve attraverso il ricambio generazionale. Se facciamo pochi figli la popolazione tende ad invecchiare in modo insostenibile rispetto alla possibilità di creare ricchezza e benessere. Lo slogan del “Ferility Day” che invitava a considerare la fertilità (ovvero la capacità riproduttiva dei singoli) un bene comune è discutibile, dovremmo invece considerare le nuove generazioni come una ricchezza collettiva da accrescere e valorizzare.

Altro errore è far sentire in colpa chi non ha bambini. Non bisogna agire sul sentirsi in dovere di generare, ma sulla possibilità di realizzare con successo scelte desiderate. Ciò significa far sì che chi desidera avere un figlio possa trovare un contesto che lo incoraggi e lo sostenga in tale scelta. In Italia invece l’avere figli è considerato un costo privato, non a caso siamo uno dei Paesi in cui meno si fanno figli ma più alto è anche il rischio di povertà di chi li ha.

La fertilità, l’attitudine fisica a concepire, è quindi un aspetto privato, da gestire con assoluta libertà di scelta. Ma il bene delle nuove generazioni deve riguardare tutta la collettività, a partire dalle politiche pubbliche (un tema cruciale approfondito su: A.Rosina, S.Sorgi, Il futuro che (non) c’è, Bocconi editore, 2016). La crisi demografica più di ogni altra rivela come l’Italia stia attraversando una fase delicata e problematica rispetto alla capacità di dare basi solide e prospettive prosperose al proprio futuro. L’indicatore più sensibile ai livelli di fiducia sociale e di incoraggiamento a fare scelte di impegno positivo verso il domani è proprio la natalità.

La scelta di avere un figlio va, infatti, allo stesso tempo intesa come conferma del senso di appartenenza alla comunità in cui si vive e di impegno positivo verso il futuro. Il bello del mondo di oggi, rispetto al passato quando si davano per scontati, è che ora i figli si scelgono. Il brutto, invece, è che non stiamo favorendo le condizioni perché tale scelta – pur desiderata e socialmente virtuosa – possa essere pienamente realizzata arricchendo le vite delle famiglie italiane e rendendo più solida la nostra società.

Il dato recente sul numero di nascite annue sotto il mezzo milione, risulta particolarmente negativo per vari motivi: perché equivale a meno della metà dei nati negli anni Sessanta, perché si tratta del valore più basso dall’Unità d’Italia ad oggi, perché è il quarto anno consecutivo che battiamo tale record negativo.

Ciò che caratterizza il nostro Paese non è solo l’essere uno dei Paesi meno prolifici, ma la persistenza della fecondità su valori molto bassi: da oltre tre decenni il numero medio di figli per donna è sotto la soglia di uno e mezzo. Difficilmente si trova un Paese in tali condizioni. Le regioni del Nord Italia, sono state precursori di questa revisione al ribasso delle scelte riproduttive. Se nel complesso del Paese il tasso di fecondità totale è sceso sotto il valore di 2 nel 1977 e sotto il valore di 1,5 nel 1984, arrivando poi al punto più basso nel 1995 con 1,19 figli, in Lombardia già nel 1979 si era caduti sotto un figlio e mezzo per scivolare ulteriormente fino a 1,07 a metà anni Novanta. È però vero che a partire dalla metà degli anni Novanta è iniziato un percorso nuovo che ha visto per la prima volta le regioni del Nord e quelle del Sud seguire percorsi diversi. L’area centro-settentrionale ha avviato un processo di lenta progressiva crescita, mentre il meridione ha proseguito un processo di tendenziale declino. L’esito di tali due opposte dinamiche ha portato prima all’annullamento del secolare vantaggio riproduttivo del Sud e successivamente ad un inedito sorpasso del Nord.

È però importante tener presente che il numero medio di figli desiderato non è invece mai sceso sotto il valore di 2, questo vale anche per le generazioni più giovani come mostrano i dati del “Rapporto Giovani” dell’Istituto Toniolo. Se ne deduce che nelle regioni del Nord le condizioni sono state relativamente più favorevoli per la realizzazione della scelta di un figlio in più rispetto al resto d’Italia (ma non rispetto al resto dei Paesi sviluppati), mentre nell’area meridionale le maggiori difficoltà dei giovani a trovare lavoro e formare nuove coppie, in com- binazione con una più carente rete di servizi per l’infanzia, hanno compresso la fecondità verso il basso.

Il legame oggi più stretto e diretto tra economia, welfare e demografia sembra trovare conferma anche dall’impatto della grande crisi iniziata nel 2008. Un effetto negativo sulle nascite si osserva in tutta Europa, ma con maggior accentuazione sul nostro paese. In un contesto già problematico come quello italiano, si sono ristretti i fondi pubblici a favore dei servizi di conciliazione; sono cresciute le coppie in difficoltà economica; i giovani hanno trovato ancor più difficoltà a formare nuovi nuclei familiari; ma oltre ai motivi economici e strutturali, è aumentata l’incertezza verso il futuro. La moderata ripresa delle nascite si è così negli ultimi anni fermata, anche nelle regioni del Nord, in attesa di tempi migliori e politiche lungimiranti.

Non c’è, in molti casi, una vera rinuncia ad avere un figlio. Spesso la scelta positiva – soprattutto in condizione di contesto culturale e strutturale poco favorevole – rimane ferma in un punto indefinito del processo decisionale senza mai veramente sbloccarsi. Via via però che il tempo passa e che l’età avanza, da un lato ci si adatta ad uno stile di vita fatto di abitudini che si ha sempre meno voglia di rimettere in di- scussione, d’altro lato, soprattutto sul versante femminile, ci si accorge che avere un figlio è sempre più difficile e complicato anche perché gli anni più fertili sono passati.

L’evidenza di tutto questo la si trova nel fatto che la quota di donne che arrivano ai 50 anni senza figli è raddoppiata rispetto alle generazioni precedenti, salendo oltre il 20%. Tale valore può aumentare ancor di più se la crisi economica porta alcune strategie adattive a diventare vincoli verso il basso. Negli anni più recenti è, infatti, aumentato soprattutto il numero di donne arrivate attorno ai 35 anni senza figli. Se esse non incroceranno in tempi brevi le condizioni per recuperare i loro progetti di vita, la discesa congiunturale delle nascite negli anni di crisi rischia di trasformarsi in rinuncia definitiva.

Quel gap da colmare tra il desiderio e la realtà

 

Cosa possiamo augurarci di riuscire a far meglio nell’Italia del 2017 rispetto agli anni precedenti? Tra i vari fronti sui quali abbiamo perso terreno – non solo rispetto al resto del mondo sviluppato ma ancor più nei confronti di ciò che vorremmo e potremmo essere – quello a cui rivolgere il nostro miglior impiego di mezzi e risorse è forse l’ampio divario che si è creato tra desiderio e realtà nelle vite dei giovani. Gli ostacoli che incontrano le nuove generazioni nel realizzare i propri progetti personali e lavorativi vanno, infatti, considerati allo stesso tempo conseguenza e causa dell’indebolimento dei processi di crescita e cambiamento del paese.

Spiegate ai giovani perché i migranti ci salveranno

Nei prossimi anni il nostro Paese, compresa gran parte d’Europa, si troverà con sempre più persone ritirate dal lavoro che assorbiranno risorse per pensioni e spesa sanitaria, da un lato, e sempre meno persone in età da lavoro, dall’altro. Un quadro che rischia di diventare insostenibile, impoverendo la capacità di produrre crescita e dare solidità al sistema sociale. È possibile rispondere a questi cambiamenti in modo positivo? Sì, a tre condizioni. La prima è favorire una ripresa delle nascite. La seconda è mobilitare nel sistema produttivo le risorse finora sottoutilizzate, in particolare giovani e donne. Il terzo è rinvigorire la popolazione con l’immigrazione, rafforzando le carenze di manodopera in vari settori e rendendo più sostenibile il rapporto tra lavoratori e inattivi.

Chi dice di non volere l’immigrazione dà quindi per scontato il declino dell’Italia. Chi è accogliente accetta invece una sfida delicata e complessa, rispetto alla quale nessun paese ha saputo sinora proporre una soluzione convincente. Se lo scenario di chiusura è impossibile (a meno di togliere l’Italia dal centro del Mediterraneo e spostarla su Marte) è però anche vero che lo scenario di flussi di entrata mal gestiti e di permanenza mal integrata è il peggiore possibile, perché non migliora la crescita e va a inasprire le diseguaglianze.

L’immigrazione è quindi una sfida inevitabile che dobbiamo imporci di vincere. Ma non può essere vinta se prima non viene capita e colta, dalla classe dirigente e dai cittadini comuni, in tutta la sua rilevanza sul nostro futuro. Richiede una soluzione sia strutturale che culturale, mentre oggi prevale lo smarrimento politico e il disorientamento sociale, come ha ben evidenziato il Cardinale Scola nei suoi recenti interventi.

I dati recenti di un approfondimento del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, indicano che il 28% dei giovani tra i 18 e i 32 anni vorrebbe il rimpatrio di chiunque arriva, siano essi profughi o persone in cerca di lavoro. La grande maggioranza è invece favorevole all’accoglienza, ma non incondizionata. L’atteggiamento di fondo appare confuso e ambivalente. Da un lato, i ragazzi italiani, come evidenziano varie ricerche, tendono a non considerare straniero il compagno di banco con genitori di nazionalità diversa e colore della pelle diverso. D’altro lato, dai media vengono bombardati con notizie di sbarchi continui, di episodi di violenza e condizioni di sfruttamento. Ragioni e valori dell’accoglienza fanno così sempre più fatica a contrastare la crescita dei timori di una presenza straniera subita e non ben integrata.

Tutto questo in un contesto di crisi economica, di welfare in sofferenza, di risorse familiari in riduzione, di bassa fiducia nelle istituzioni e di alta disoccupazione giovanile. Non stupisce quindi che i giovani italiani siano quelli più indotti, rispetto ai coetanei degli altri grandi paesi europei, a pensare che chi arriva dall’estero più che aiutarci ad allargare la torta comune ci possa costringere ad una riduzione delle fette pro capite. Gli under 30 intervistati che concordano con l’affermazione che gli immigrati peggiorano le condizioni del paese in cui vanno a vivere sono oltre il 60% in Italia e Francia. Va però tenuto presente che la Francia ha subito attentati drammatici di matrice islamica e che ha una presenza straniera maggiore della nostra. Valori più bassi, poco sopra al 40%, si registrano invece in Germania, paese nel quale risulta più larga la consapevolezza che l’immigrazione sia parte integrante del processo di crescita del paese.

Questi dati devono far riflettere perché ci dicono che rischiamo di far chiudere in difesa una generazione potenzialmente aperta al confronto positivo tra mondi e culture. Conforta, in ogni caso, il fatto che si ottengono valori meno negativi nei contesti in cui l’integrazione funziona e tra chi è più informato sul fenomeno. La maggioranza di chi dice che gli immigrati sono troppi non sa infatti dire esattamente quanti siano, tende ad enfatizzare la componente irregolare e la voce dei costi sul welfare rispetto alla ricchezza economica prodotta.

La strada è quindi quella del miglioramento degli strumenti conoscitivi rivolti ai cittadini oltre che di una responsabilità più solida della politica nella guida al cambiamento. Iniziative come Open migration, siti di informazione come Neodemos, eventi pubblici di confronto positivo tra culture, misure di successo nelle periferie come Quarto Oggiaro a Milano, mostrano che la diffidenza si può superare e che la diversità può diventare ricchezza culturale ed economica. Lasciare che una larga parte dei giovani scivoli invece dalla diffidenza all’ostilità è l’errore più grande che oggi possiamo fare, del quale possono beneficiare solo le forze politiche che speculano sulle paure e che sanno solo alzare muri.

Se l’immigrazione è una di quelle sfide a cui non possiamo sottrarci è anche vero che senza un ruolo positivo delle nuove generazioni difficilmente possiamo pensare di vincerla.