Tagged: popolazione

Il Rapporto. I giovani adesso vogliono contare. L’Italia impari a dare più ascolto

I dati dell’edizione 2023 del Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo ci dicono soprattutto che i giovani italiani vorrebbero scegliere e vorrebbero poter contare, ma forse mai come in questo momento storico si trovano in difficoltà a farlo.

Come società sappiamo bene come e dove vogliamo che i giovani siano. Li vogliamo trovare nelle scuole, nelle aziende, nelle organizzazioni impegnate nel sociale, nei luoghi di culto, nei seggi elettorali, nella condizione di persone autonome, nella formazione di nuovi nuclei familiari, nell’esperienza genitoriale.

Quello che è certo è che tutti tali luoghi sono sempre meno popolati dalle nuove generazioni. Un motivo strutturale è ben noto, chiama in causa la bassa natalità che caratterizza in particolare il nostro paese e che sta alla base del processo di degiovanimento.

Le stesse trasformazioni demografiche vanno soprattutto considerate una questione di rinnovo generazionale. Gli squilibri nel rapporto quantitativo tra giovani e anziani sono la conseguenza dell’indebolimento dei meccanismi qualitativi che regolano il ricambio tra vecchie e nuove generazioni. Nessuna società può funzionare senza essere generativa verso il futuro, ovvero senza dar vita alle generazioni successive, metterle nelle condizioni di: crescere in un contesto sano e sicuro; formarsi bene; trovare sostegno nella capacità, a propria volta, di generare valore.

Ciò che non aiuta chi è nella fase giovanile a compiere in modo solido la transizione scuola-lavoro, a fare esperienze di valore sociale che rafforzano senso di appartenenza e fiducia in se stessi, a conquistare una propria autonomia abitativa e a formare una propria famiglia, rende più deboli i progetti di vita delle nuove generazioni. Il degiovanimento quantitativo è, quindi, a sua volta, soprattutto conseguenza di un degiovanimento qualitativo, ovvero della bassa presenza di giovani nei contesti in cui si apprende e agisce il cambiamento come soggetti attivi, responsabili e consapevoli.

Ma basta, allora, fare in modo che i giovani siano dove ci aspettiamo, come società, che debbano trovarsi? Non è più così, ci dicono le analisi del Rapporto giovani 2023, o comunque lo è molto meno che in passato.

Basta che essi siano a scuola? Se vogliamo che ci rimangano di più è sufficiente spostare a 18 anni l’obbligo scolastico? No, non basta come contrasto alla dispersione scolastica (ovvero l‘abbandono precoce del percorso formativo) e ancor meno per ridurre la dispersione implicita (ovvero il conseguimento del diploma ma con livelli di preparazione e competenza molto bassi, insufficienti per affrontare con successo la vita e il mondo nelle società moderne avanzate). Serve di più. Serve che i ragazzi scelgano di stare a scuola e di investire sul proprio percorso formativo. Ma questo significa creare ambienti stimolanti e motivanti, riconoscere i mutamenti nelle modalità di apprendimento delle nuove generazioni, andare incontro alle specificità dei singoli, mettere in relazione ciò che si impara a scuola con il proprio essere e fare nel mondo.

Basta, poi, per aumentare la presenza nel mondo del lavoro, rendere più facili le modalità di assunzione dei giovani da parte delle aziende? La flessibilità intesa come forma per poter assumere manodopera a basso costo e potersene facilmente disfare quando non  più funzionale non si è certo rivelata una soluzione efficace per migliorare la condizione lavorativa delle nuove generazioni. Il timore di intrappolamento in percorsi di basso sviluppo professionale ha reso i giovani italiani, anche quelli ben preparati, ipercauti e diffidenti rispetto alla domanda di lavoro. A questa richiesta di adattamento continuo al ribasso, che limita la capacità di dare il meglio di sé nel lavoro e frena i progetti di vita, i giovani sono diventati sempre più insofferenti. L’impatto della pandemia ha, inoltre, accelerato un mutamento di fondo sulle priorità da dare alla propria vita e sull’idea di lavoro. La flessibilità di cui le nuove generazioni hanno bisogno è, allora, quella che consente di fare esperienze positive, di scegliere se rimanere in un’azienda o di cambiare per migliorare continuamente le proprie competenze professionali e sociali.

Non basta, detto in altre parole, formare bene i giovani, potenziare i servizi per l’impiego e dare incentivi per l’occupazione (tutti aspetti comunque più carenti in Italia rispetto ai paesi con cui ci confrontiamo), è necessario anche essere attrattivi nei loro confronti e saper valorizzare al meglio il loro specifico contributo. Nei membri della Generazione Zeta è forte il desiderio di essere riconosciuti nella propria specificità. Sentono come riduttivo che venga chiesto di portare solo le competenze di cui l’azienda ha bisogno, mentre vorrebbero, prima di tutto, portare quello che sono. Il fenomeno della “Great resignation” è espressione di questo mutamento qualitativo di fondo. Se non sentono di crescere in termini sia di proprio sviluppo umano sia di contributo nello sviluppo dell’azienda con il proprio valore distintivo, perdono motivazione e lasciano. La chiamata che li ingaggia non è quella di sostituire un lavoratore andato in pensione o coprire una mansione richiesta, ma generare valore con la novità che rappresentano. Questo non vale solo nel mondo del lavoro, ma anche in molti altri campi, compreso quello della partecipazione politica e sociale.

Su quest’ultimo fronte, non basta, allora, aumentare i posti di Servizio civile, come non basta abbassare a 18 anni l’età al voto al Senato. I dati disponibili sembrano indicare che nonostante tali misure la presenza dei giovani nel volontariato e nei seggi elettorali non sia aumentata. Riguardo al Servizio civile, perché sia davvero “universale” deve diventare effettivamente accessibile a ciascun giovane. Questo significa chiedersi continuamente come renderlo attrattivo (capace di farsi scegliere) e come migliorare continuamente le condizioni perché sia vissuto come esperienza trasformativa (che rafforza la capacità di sentirsi soggetti attivi del mondo che cambia). Su come farlo non ci sono risposte definitive e risultati scontati.  Quello che i dati dicono è, in ogni caso, che non è diminuita l’offerta di partecipazione e tantomeno la voglia di protagonismo. C’è, in particolare, un forte desiderio di esserci dove le cose accadono, dove ci sono questioni considerate centrali per il proprio tempo, dove serve la propria spinta per superare limiti e storture di sistema. Lo si è visto recentemente nella mobilitazione spontanea a favore delle zone alluvionate, lo si riscontra sui temi dell’ambiente e dei diritti, lo si è osservato nella protesta per gli alti affitti universitari. L’elemento comune è il sentire una chiamata a farsi soggetti attivi in modo collettivo nel migliorare una realtà critica con il proprio contributo distintivo, portando le proprie sensibilità e istanze.

A differenza delle generazioni socializzate nei primi decenni del secondo dopoguerra, lo stesso voto alle elezioni risulta sempre meno una pratica a cui si attribuisce un valore in sé e, di conseguenza, è sempre meno una scelta scontata. È l’interesse verso l’esito atteso che porta le nuove generazioni a “prendere parte”. Ed è, poi, il riscontro che fornisce l’esperienza fatta che le porta poi a riconoscerne utilità e valore, rafforzando anche il senso di appartenenza. Vale, in generale, per il lavoro e le scelte professionali, per la partecipazione sociale e politica, ma vale, sempre più, anche per la scelta di avere un figlio (che da desiderio deve farsi esperienza di valore che rafforza il senso di comunità).

Ma tutto questo, per evolvere nella direzione più virtuosa, ha bisogno di due condizioni. La prima è il rafforzamento della capacità di scegliere – o meglio di discernere – da parte dei giovani, ovvero di rendere coerenti le proprie aspirazioni con le proprie effettive capacità ed in relazione con ciò che la realtà offre (non solo per adattarsi ma anche per cambiarla positivamente). La seconda è che i luoghi nei quali i giovani possono diventare soggetti attivi e generativi siano attrattivi, questo non significa solo saper offrire un’esperienza positiva, ma essere disposti anche a mettersi in discussione con la novità che portano, in grado di riconoscere la specificità del contributo dei singoli ma allo stesso tempo far sentire di essere parte di un processo che genera valore condiviso.

Condizioni entrambe fondamentali per non rassegnarsi a contare anno dopo anno sempre meno giovani in un paese in cui i giovani contano sempre di meno.

Clima: i giovani sono protagonisti

I giovani ci sono e ci credono. Sono sempre di meno ma vogliono contare di più. Non sono facili da trovare dove ci si aspetta che siano, ma mostrano una grande voglia di protagonismo negli ambiti in cui sentono di poter fare la differenza a modo loro.

Vogliono soprattutto esserci dove le cose accadono, dove ci sono questioni considerate centrali per il proprio tempo, dove serve la loro spinta per superare limiti e storture di sistema. Lo si è visto recentemente nella mobilitazione spontanea a favore delle zone alluvionate, lo si riscontra sui temi dell’ambiente e dei diritti, lo si è osservato nella protesta per gli alti affitti universitari. L’elemento comune è il sentire una chiamata a farsi soggetti attivi in modo collettivo nel migliorare una realtà critica con il proprio contributo distintivo, portando le proprie sensibilità e istanze.

La questione ambientale, in particolare, è posta dai giovani come priorità. E’ diventata parte dell’identità generazionale per l’urgenza con la quale è posta e le modalità sperimentate per portarla al centro dell’attenzione pubblica. Se esistono elementi di discontinuità rispetto a come il cambiamento climatico è stato considerato e gestito dalle generazioni precedenti questo non significa che venga considerato un tema di conflitto generazionale. Va anche considerato che l’universo dei giovani è composto da diverse galassie, non da un gruppo monolitico e monopensiero, e al suo interno le posizioni sono articolate, frutto di un pensiero critico complesso ove si riflettono, verosimilmente, esperienze di vita, considerazioni personali, familiari e sociali. Anche rispetto alla radicalità delle azioni da intraprendere, le posizioni sono diverse.

I dati dell’indagine realizzata da Ipsos per l’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo e in collaborazione con il Corriere della Sera, evidenziano in modo chiaro come l’attenzione alla questione riguardi certamente in modo distintivo i giovani, ma imponga un impegno traversale e condiviso. Richiede che tutti si rimettano in discussione: nei comportamenti personali, nell’azione pubblica e nel modello di sviluppo.

Ecco allora che oltre il 60% dei rispondenti auspica che la questione sia gestita insieme da tutte le generazioni, in un costante dialogo e confronto. Riguardo, poi, alla responsabilità del raggiungimento e consolidamento dello sviluppo sostenibile le risposte dei giovani si suddividono in tre blocchi pressoché equivalenti: per circa un terzo degli intervistati lo sviluppo sostenibile dipende dalle scelte quotidiane dei singoli cittadini, per un terzo dalle aziende, per un terzo, infine, dalla politica. Chiedono, implicitamente, un’alleanza – o almeno una sinergia – tra istituzioni, imprese e cittadini per un traguardo comune.

Proprio lo sviluppo sostenibile è forse la sfida che consente (e costringe) maggiormente ad adottare una prospettiva che anticipa il futuro desiderato per mettere in discussione quanto si è fatto sinora e impegnando le scelte del presente. Se l’azione delle nuove generazioni è portata a scardinare rendite e finte sicurezze del passato, rispetto alle scelte responsabili del presente che migliorano il futuro i giovani non vogliono sentirsi soli. C’è il riconoscimento che non esistono soluzioni semplici. Va ripensato assieme il modello sociale e di crescita. Ma non è semplice nemmeno cambiare i propri comportamenti. Su questo c’è anche una disponibilità all’autocritica. Più del 40% afferma che in teoria vorrebbe vivere in maniera sostenibile ma che non lo fa “perché non è pratico”. Oltre uno su tre non privilegia la praticità ma non si sente pienamente coerente con l’impegno quotidiano verso la sostenibilità. C’è un miglioramento nel passaggio dagli adolescenti (fascia 14-17) ai giovani (18-22 anni). Qui sono oltre uno su cinque coloro che adottano una posizione di impegno in prima persona anche nelle proprie azioni private. Questo risulta ancor più forte tra le ragazze, che si spendono anche maggiormente in un ruolo di stimolo a comportamenti sostenibili all’interno della famiglia.

Assieme alla necessità di andare oltre quello che le nuove generazioni da sole possono fare, nell’azione individuale e collettiva, c’è anche il riconoscimento dell’importanza di aver solidi punti di riferimento e orientamento. E’, allora, interessante osservare come i pari e i social network siano considerati fonti importanti di informazione e influenza, ma siano preceduti da scienziati ed esperti. Anche i genitori hanno un ruolo importante (soprattutto per gli adolescenti), molto meno, invece, gli influencer. In breve: riferimento a contenuti autorevoli (esperti), possibilità di confronto orizzontale (amici e social network), riscontro in termini di importanza e con soggetti di fiducia (i genitori) sono i principali motori che alimentano conoscenza, consapevolezza, coinvolgimento sui temi ambientali e della sostenibilità.

Per gli adolescenti una fonte importante sono anche gli insegnanti: poco più del 66% dei partecipanti alla ricerca li ha indicati come in grado di influenzarli molto o abbastanza in merito a questi temi. Pare dunque che non solo adolescenti e giovani abbiano bene presenti i tre assi della sostenibilità alla base di Agenda 2030 –  ambientale, sociale ed economica – ma anche che gli adolescenti ripongano grande fiducia nella scuola in merito alla possibilità di educarsi a questi valori. E cosa chiedono alla scuola? Le idee anche qui sono molto chiare e mettono in luce il loro voler essere non “corpi sdraiati” ma “teste pensanti”. Alla scuola chiedono di promuovere in modo accessibile un pensiero complesso, capace di valorizzare la storia del passato ma anche di proiettarsi nel futuro: capire e aver solide radici per poter progettare. Chiedono una lettura interdisciplinare dei fenomeni: per comprendere  e agire nella complessità sono necessarie competenze e conoscenze multiple e integrate.  Chiedono di connettere globale con locale. E, infine, chiedono stimoli per sviluppare un pensiero critico.

Nella grande maggioranza c’è, in definitiva, il desiderio di veder crescere sia la propria capacità di impegno personale sia le condizioni collettive, sociali ed economiche, che favoriscono lo sviluppo sostenibile. Mettono al centro il proprio protagonismo positivo ma riconoscono le competenze agli adulti di cui si fidano e chiedono di costruire insieme sostenibilità integrale e bene comune.

***

Debito e sostenibilità, la sfida demografica incombe sui conti italiani

Nota a cura di Massimo Bordignon, Leonardo Ciotti, Alessandro Rosina e Nicoletta Scutifer

La crisi demografica rappresenta una delle principali fonti di preoccupazione per la sostenibilità delle finanze pubbliche e il finanziamento del sistema di welfare in molte economie mature. Questo è particolarmente vero per l’Italia, che è già gravata da un elevato debito pubblico e che presenta le peggiori prospettive demografiche tra tutti i principali Paesi europei. Le stime contenute nel Def 2023 catturano bene questo scenario, con un debito pubblico su Pil che, in assenza di interventi, si inerpica fino al 180 per cento entro il 2050 generando seri rischi di sostenibilità finanziaria. Ma non è obbligatorio arrendersi a questo scenario. Per il futuro dell’Italia e anche per garantire sistemi adeguati di sostegno alle persone, serve un approccio integrato che combini assieme politiche per la natalità, per evitare che in futuro la crisi demografica si autoalimenti con sempre minor donne in età fertile, con politiche per aumentare i tassi di occupazione, troppo bassi nei confronti internazionali, e politiche di attrazione di un maggior numero di immigrati con competenze più elevate. Ciascun intervento sosterrebbe l’altro, in un circuito che può diventare virtuoso, come mostra l’esempio tedesco. L’alternativa, ossia rimandare il problema facendo finta che non esista, può risultare disastrosa.

Le stime sulla sostenibilità del debito pubblico italiano nel lungo periodo riportate nel Def 2023 meritano di essere riprese e discusse con attenzione. Mentre nel breve periodo, a seconda dei diversi scenari ipotizzati, la traiettoria del rapporto debito/Pil resta confortante, seppur legata all’attuazione di politiche severe di controllo della dinamica della spesa, nel lungo periodo la situazione si inverte e il debito rischia di crescere fino a livelli insostenibili. Anche questo scenario naturalmente risente di ipotesi specifiche (che discutiamo in dettaglio più avanti), ma il suo andamento è soprattutto influenzato dal rapido declino demografico e dall’andata in quiescenza nei prossimi vent’anni delle ancor popolose generazioni nate negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Purtroppo, mentre le stime sulla crescita economica e sui tassi di interesse nel lungo periodo sono caratterizzate da ampi margini di incertezza, quelle demografiche tendono a essere più affidabili, in quanto basate sulle generazioni attualmente viventi, sulla loro speranza di vita e sui loro comportamenti riproduttivi. Non a caso, il Def conclude che “la transizione demografica è una delle sfide più rilevanti che l’Italia dovrà affrontare nel corso dei prossimi decenni”.

LEGGI ARTICOLO COMPLETO

Favorire autonomia e iniziativa per rigenerare il nostro Paese

Qualsiasi società per funzionare bene ha bisogno di un adeguato rinnovo generazionale. Tale rinnovo – come ben illustra il sistema di indicatori presentato in queste pagine –  pone al centro dei processi che alimentano benessere e sviluppo di un territorio la capacità di generare valore nelle varie fasi della vita e il rapporto tra generazioni.

Supponiamo che in un territorio si riduca la capacità delle nuove generazioni di accedere al mondo del lavoro e di formare un proprio nucleo familiare. Ciò porterebbe a una riduzione delle nascite e a difficoltà per le giovani famiglie a investire sulla formazione e il benessere dei figli, con conseguenze negative collettive.

Il rinnovo generazionale si realizza in due momenti chiave del corso di vita. Il primo è quello alla nascita, che consente di alimentare con nuovi ingressi la popolazione. Il secondo è quello dell’entrata nella vita adulta, che favorisce i processi di sviluppo economico e benessere sociale con nuovi ingressi nel mondo del lavoro e nei ruoli della vita civile e istituzionale. Si tratta di due fasi strettamente legate. Se non funzionano i meccanismi della seconda si indeboliscono anche quelli della prima. Ma un indebolimento delle nascite e delle condizioni dell’infanzia, porta ad una maggior fragilità demografica e a una debolezza dei percorsi formativi e professionali nella seconda fase. Con ricadute anche nelle fasi successive. Si rischia, infatti, di non riuscire a mettere basi solide per una lunga vita attiva e in buona salute. In particolare, il ritardo nei tempi di ingresso nel mondo del lavoro, i bassi salari e la loro discontinuità, tendono a condannare ad una condizione di povertà anche in età anziana con pensioni future basse.

La stessa qualità della vita nelle fasi più mature ha bisogno, quindi, di un rinnovo generazionale che funzioni, sia per ciò che lega, nei percorsi individuali, il benessere futuro con le scelte in età giovanile, sia per il rapporto quantitativo tra vecchie e nuove generazioni che dipende dalle dinamiche della natalità, oltre che dalle scelte dei giovani di rimanere sul territorio o spostarsi.

E’ illusorio pensare di costruire un futuro migliore aggiungendo vita davanti a sé (maggior longevità) lasciando indebolire la vita dietro di sé (minori nascite e scadimento della condizione dei giovani). Il vivere a lungo e bene è sostenibile solo in un territorio che ha un’adeguata presenza di persone nelle età lavorative.  Se la denatalità va progressivamente a rendere più squilibrato il rapporto tra chi produce ricchezza, finanzia e fa funzionare il sistema di welfare, da un lato, e chi assorbe spesa sociale per esigenze  di cura e assistenza, dall’altro, diventa sempre più difficile garantire sviluppo e coesione sociale.

La carenza di risorse, come conseguenza di una più debole forza lavoro e di una maggior spesa per l’invecchiamento della popolazione, tende ulteriormente ad indebolire gli investimenti verso le nuove generazioni (in termini di formazione, welfare attivo, strumenti di autonomia e politiche familiari). Rischia, quindi, di vincolare progressivamente il paese in un percorso di basso sviluppo, basse opportunità e basso benessere in tutte le fasi della vita. Per scongiurare questo scenario è necessario rispondere al degiovanimento quantitativo con un potenziamento qualitativo delle nuove generazioni, che favorisce anche la capacità attrattiva del territorio.

Una parte sempre più ampia del territorio italiano si trova già oggi in forte sofferenza come conseguenza degli squilibri prodotti dal debole rinnovo generazionale, con difficoltà a garantire servizi di base. La sfida dell’attrattività verso le nuove generazioni è ancor più sentita per i comuni montani e le aree interne, realtà decentrate ma cruciali per la tenuta complessiva del territorio sotto il profilo idrogeologico, paesaggistico e dell’identità culturale. Questi contesti anticipano quello che potrebbe diventare il paese se non inverte la tendenza. Come mostrano i dati della terza edizione degli indicatori generazionali della qualità della vita anche alcune grandi città mostrano evidenti difficoltà.

Più in generale, ciò che maggiormente oggi manca all’Italia è il valore che possono fornire le nuove generazioni all’interno dei processi di sviluppo del territorio in cui vivono. Diventa sempre più importante, pertanto, adottare la prospettiva delle nuove generazioni e configurare politiche in grado di aiutarle a farsi parte attiva e qualificata dei processi di cambiamento del proprio tempo. Questo significa mettere in campo risorse adeguate e strumenti continuamente aggiornati che consentano di generare valore personale e collettivo con le proprie scelte, sia sul versante maschile che femminile: supporto alla piena indipendenza economica e abitativa, promozione dell’intraprendenza nella società e nel mondo del lavoro, realizzazione piena dei propri progetti di vita. In particolare, avere un figlio deve entrare all’interno dei confini della progettazione possibile nei percorsi di transizione alla vita adulta, non posizionarsi oltre un orizzonte che viene spostato sempre più in avanti fino alle soglie della rinuncia. La mancanza di adeguate misure a sostegno dell’autonomia e dell’intraprendenza (attraverso housing e politiche attive del lavoro) rischia di mantenere molti giovani italiani nella condizione di figli fino all’età in cui diventa troppo tardi per diventare genitori.

Far funzionare i meccanismi del rinnovo generazionale, sul versante sia quantitativo che qualitativo, dovrebbe essere una delle preoccupazioni principali per una società che alimenta i processi di uno sviluppo sostenibile e inclusivo. Non c’è alcuna possibilità, del resto, di costruire un futuro migliore senza mettere in relazione virtuosa le opportunità del mondo che cambia, le specificità (culturali e strutturali) del territorio, le potenzialità e le sensibilità delle nuove generazioni.

Tre misure chiave per invertire la china

In un film del 1993 dal titolo “Ricomincio da capo”, diventato negli anni un cult, vengono raccontate le vicende di una persona che si trova a vivere ogni nuovo giorno in modo identico a quello precedente. Destinata, quindi, ad ogni risveglio a ricominciare da capo. Sembra il destino del nostro paese, peggiorato però dal fatto che, bloccato dai suoi nodi irrisolti, si risveglia ogni giorno non solo con di fronte gli stessi problemi ma anche sempre più invecchiato. Inoltre, più il tempo passa rimanendo in tale situazione bloccata, più l’invecchiamento accelera. Proviamo a chiarire perché.