Quei morti di troppo nel 2015

Nei primi otto mesi del 2015 si sono registrati circa 45 mila decessi in più rispetto all’anno precedente. Un dato che ha suscitato molto scalpore sui mass media. Ma come dobbiamo interpretarlo?

Il conteggio continuativo del numero dei decessi, attraverso un apposito registro, inizia nelle città italiane del medioevo. L’esigenza, prima ancora che per questioni amministrative, nasce dalla necessità di identificare per tempo la possibile diffusione di una epidemia. Se il numero di morti giornalieri, settimanali, mensili, rimaneva pressoché costante, si poteva rimanere relativamente tranquilli. Se invece c’erano i segnali evidenti di una crescita era il caso di predisporre velocemente misure di profilassi e contenimento del contagio. La mortalità in passato era elevatissima anche nei periodi di “normalità” ma le epidemie ricorrenti potevano avere effetti devastanti sulla struttura demografica, sull’organizzazione sociale e sul sistema economico.

Dal fallimento delle startup la chiave della crescita

L’Italia deve ripartire dopo un periodo di bassa crescita interrotto da una prostrante crisi ormai quasi alle spalle. Ma da dove e come ripartire?  Tra le poche e confuse idee che circolano sulla risposta da dare, le convinzioni più forti indicano come fattore di traino per il rilancio le aree economicamente più dinamiche e le nuove generazioni. Sul come fare le idee sono ancora meno chiare ma si sta imponendo sempre di più la tesi che la punta avanzata della soluzione per far ripartire l’Italia attraverso i giovani siano le start-up. Il paese che ha il record di Neet e di Expat che non ritornano, ritrova ottimismo quando restringe lo sguardo su quelle parti del territorio in cui una quota molto ristretta di giovani riesce a far diventare un’idea innovativa una impresa di successo. Teniamo però presente che di giovani noi ne abbiamo meno degli altri paesi. Consideriamo poi che la percentuale di laureati tra i giovani è più bassa in Italia rispetto al resto del mondo avanzato. Aggiungiamo, infine, che i ragazzi con idee innovative sono una piccolo sottoinsieme e che solo una idea su dieci sopravvive e una su cento raggiunge davvero il successo.

Sulla fuga dei giovani stiamo sbagliando tutto

L’Italia è sempre più un Paese povero di nuove generazioni (e con nuove generazioni sempre più povere). Non solo per le conseguenze di oltre tre decenni di bassa natalità che hanno prodotto un enorme squilibrio in Italia tra over 60 e under 30, ma anche perché negli ultimi anni è fortemente cresciuto il numero di persone che se ne vanno altrove. E ad andarsene non sono gli over 60 ma soprattutto gli under 30. Nei paesi più avanzati la risorsa più preziosa per crescere sono proprio le nuove generazioni.
Le economie più competitive sono quelle che: a) investendo sulla formazione, aiutano i giovani a formare competenze in sintonia con il mondo che cambia; b) investendo sulle politiche attive, consentono di mettere in relazione positiva le competenze dei giovani con le necessità del mercato del lavoro; c) investendo su ricerca e sviluppo, consentono l’espansione della domanda di lavoro di qualità nei settori più dinamici e avanzati. Noi su tutti questi punti investiamo meno della media europea e non a caso ci troviamo con una delle percentuali di Neet (under 35 che non studiano e non lavoro) tra le più alte, ma anche con crescente saldo negativo tra talenti che se ne vanno e quelli che attraiamo da altri paesi.

La mobilità delle nuove generazioni non è un fenomeno che riguarda solo l’Italia e non è solo legato al momento storico di difficoltà che incontrano i giovani nel nostro paese. Rispetto alla capacità di comprenderlo e gestirlo nel modo migliore ci si scontra però nel nostro paese con quattro cruciali limiti (che verranno discussi nell’annuale meeting dedicato agli Expat, Meetalents 2015, www.meetalents.it).

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L’intraprendenza dei giovani oltre la retorica delle startup

Un esempio di quanto conosciamo poco le nuove generazioni arriva dall’ultimo Rapporto del Censis. L’Istituto di ricerca, che ogni anno fornisce quello che per gli intellettualmente pigri politici e giornalisti italiani è il principale ritratto del Paese, ha scoperto i “Millennials”. Sono, secondo tale Rapporto, “i giovani che non ti aspetti”: intraprendenti e innovatori. Peccato che ricerche ben più approfondite, ma meno mediatiche, le stesse cose le avessero già documentate da tempo. Il valore aggiunto del Rapporto Censis è quello di mettere assieme, rielaborando da varie fonti, tutto quello che può essere di interesse sulla situazione del paese corredata di una chiave di lettura. Il limite è una interpretazione poco coerente da un anno all’altro, che oscilla continuamente tra ottimismo e pessimismo, molto in linea con un paese che naviga a vista.

Le diseguaglianze che corrodono benessere e salute

La sfida del vivere a lungo e bene è una vittoria molto recente. Ancora un secolo e mezzo fa le condizioni di salute e i livelli di sopravvivenza a Milano non erano dissimili da quelli dei paesi oggi più arretrati del pianeta. Dobbiamo quindi essere molto soddisfatti di come viviamo oggi. I rischi di morte sono fortemente diminuiti a partire dalle età infantili. Nel secondo dopoguerra la mortalità è progressivamente scesa su valori bassissimi lungo tutta la fase adulta. Dagli anni Ottanta in poi i miglioramenti si sono concentrati in età anziana.