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Il Rapporto. I giovani adesso vogliono contare. L’Italia impari a dare più ascolto

I dati dell’edizione 2023 del Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo ci dicono soprattutto che i giovani italiani vorrebbero scegliere e vorrebbero poter contare, ma forse mai come in questo momento storico si trovano in difficoltà a farlo.

Come società sappiamo bene come e dove vogliamo che i giovani siano. Li vogliamo trovare nelle scuole, nelle aziende, nelle organizzazioni impegnate nel sociale, nei luoghi di culto, nei seggi elettorali, nella condizione di persone autonome, nella formazione di nuovi nuclei familiari, nell’esperienza genitoriale.

Quello che è certo è che tutti tali luoghi sono sempre meno popolati dalle nuove generazioni. Un motivo strutturale è ben noto, chiama in causa la bassa natalità che caratterizza in particolare il nostro paese e che sta alla base del processo di degiovanimento.

Le stesse trasformazioni demografiche vanno soprattutto considerate una questione di rinnovo generazionale. Gli squilibri nel rapporto quantitativo tra giovani e anziani sono la conseguenza dell’indebolimento dei meccanismi qualitativi che regolano il ricambio tra vecchie e nuove generazioni. Nessuna società può funzionare senza essere generativa verso il futuro, ovvero senza dar vita alle generazioni successive, metterle nelle condizioni di: crescere in un contesto sano e sicuro; formarsi bene; trovare sostegno nella capacità, a propria volta, di generare valore.

Ciò che non aiuta chi è nella fase giovanile a compiere in modo solido la transizione scuola-lavoro, a fare esperienze di valore sociale che rafforzano senso di appartenenza e fiducia in se stessi, a conquistare una propria autonomia abitativa e a formare una propria famiglia, rende più deboli i progetti di vita delle nuove generazioni. Il degiovanimento quantitativo è, quindi, a sua volta, soprattutto conseguenza di un degiovanimento qualitativo, ovvero della bassa presenza di giovani nei contesti in cui si apprende e agisce il cambiamento come soggetti attivi, responsabili e consapevoli.

Ma basta, allora, fare in modo che i giovani siano dove ci aspettiamo, come società, che debbano trovarsi? Non è più così, ci dicono le analisi del Rapporto giovani 2023, o comunque lo è molto meno che in passato.

Basta che essi siano a scuola? Se vogliamo che ci rimangano di più è sufficiente spostare a 18 anni l’obbligo scolastico? No, non basta come contrasto alla dispersione scolastica (ovvero l‘abbandono precoce del percorso formativo) e ancor meno per ridurre la dispersione implicita (ovvero il conseguimento del diploma ma con livelli di preparazione e competenza molto bassi, insufficienti per affrontare con successo la vita e il mondo nelle società moderne avanzate). Serve di più. Serve che i ragazzi scelgano di stare a scuola e di investire sul proprio percorso formativo. Ma questo significa creare ambienti stimolanti e motivanti, riconoscere i mutamenti nelle modalità di apprendimento delle nuove generazioni, andare incontro alle specificità dei singoli, mettere in relazione ciò che si impara a scuola con il proprio essere e fare nel mondo.

Basta, poi, per aumentare la presenza nel mondo del lavoro, rendere più facili le modalità di assunzione dei giovani da parte delle aziende? La flessibilità intesa come forma per poter assumere manodopera a basso costo e potersene facilmente disfare quando non  più funzionale non si è certo rivelata una soluzione efficace per migliorare la condizione lavorativa delle nuove generazioni. Il timore di intrappolamento in percorsi di basso sviluppo professionale ha reso i giovani italiani, anche quelli ben preparati, ipercauti e diffidenti rispetto alla domanda di lavoro. A questa richiesta di adattamento continuo al ribasso, che limita la capacità di dare il meglio di sé nel lavoro e frena i progetti di vita, i giovani sono diventati sempre più insofferenti. L’impatto della pandemia ha, inoltre, accelerato un mutamento di fondo sulle priorità da dare alla propria vita e sull’idea di lavoro. La flessibilità di cui le nuove generazioni hanno bisogno è, allora, quella che consente di fare esperienze positive, di scegliere se rimanere in un’azienda o di cambiare per migliorare continuamente le proprie competenze professionali e sociali.

Non basta, detto in altre parole, formare bene i giovani, potenziare i servizi per l’impiego e dare incentivi per l’occupazione (tutti aspetti comunque più carenti in Italia rispetto ai paesi con cui ci confrontiamo), è necessario anche essere attrattivi nei loro confronti e saper valorizzare al meglio il loro specifico contributo. Nei membri della Generazione Zeta è forte il desiderio di essere riconosciuti nella propria specificità. Sentono come riduttivo che venga chiesto di portare solo le competenze di cui l’azienda ha bisogno, mentre vorrebbero, prima di tutto, portare quello che sono. Il fenomeno della “Great resignation” è espressione di questo mutamento qualitativo di fondo. Se non sentono di crescere in termini sia di proprio sviluppo umano sia di contributo nello sviluppo dell’azienda con il proprio valore distintivo, perdono motivazione e lasciano. La chiamata che li ingaggia non è quella di sostituire un lavoratore andato in pensione o coprire una mansione richiesta, ma generare valore con la novità che rappresentano. Questo non vale solo nel mondo del lavoro, ma anche in molti altri campi, compreso quello della partecipazione politica e sociale.

Su quest’ultimo fronte, non basta, allora, aumentare i posti di Servizio civile, come non basta abbassare a 18 anni l’età al voto al Senato. I dati disponibili sembrano indicare che nonostante tali misure la presenza dei giovani nel volontariato e nei seggi elettorali non sia aumentata. Riguardo al Servizio civile, perché sia davvero “universale” deve diventare effettivamente accessibile a ciascun giovane. Questo significa chiedersi continuamente come renderlo attrattivo (capace di farsi scegliere) e come migliorare continuamente le condizioni perché sia vissuto come esperienza trasformativa (che rafforza la capacità di sentirsi soggetti attivi del mondo che cambia). Su come farlo non ci sono risposte definitive e risultati scontati.  Quello che i dati dicono è, in ogni caso, che non è diminuita l’offerta di partecipazione e tantomeno la voglia di protagonismo. C’è, in particolare, un forte desiderio di esserci dove le cose accadono, dove ci sono questioni considerate centrali per il proprio tempo, dove serve la propria spinta per superare limiti e storture di sistema. Lo si è visto recentemente nella mobilitazione spontanea a favore delle zone alluvionate, lo si riscontra sui temi dell’ambiente e dei diritti, lo si è osservato nella protesta per gli alti affitti universitari. L’elemento comune è il sentire una chiamata a farsi soggetti attivi in modo collettivo nel migliorare una realtà critica con il proprio contributo distintivo, portando le proprie sensibilità e istanze.

A differenza delle generazioni socializzate nei primi decenni del secondo dopoguerra, lo stesso voto alle elezioni risulta sempre meno una pratica a cui si attribuisce un valore in sé e, di conseguenza, è sempre meno una scelta scontata. È l’interesse verso l’esito atteso che porta le nuove generazioni a “prendere parte”. Ed è, poi, il riscontro che fornisce l’esperienza fatta che le porta poi a riconoscerne utilità e valore, rafforzando anche il senso di appartenenza. Vale, in generale, per il lavoro e le scelte professionali, per la partecipazione sociale e politica, ma vale, sempre più, anche per la scelta di avere un figlio (che da desiderio deve farsi esperienza di valore che rafforza il senso di comunità).

Ma tutto questo, per evolvere nella direzione più virtuosa, ha bisogno di due condizioni. La prima è il rafforzamento della capacità di scegliere – o meglio di discernere – da parte dei giovani, ovvero di rendere coerenti le proprie aspirazioni con le proprie effettive capacità ed in relazione con ciò che la realtà offre (non solo per adattarsi ma anche per cambiarla positivamente). La seconda è che i luoghi nei quali i giovani possono diventare soggetti attivi e generativi siano attrattivi, questo non significa solo saper offrire un’esperienza positiva, ma essere disposti anche a mettersi in discussione con la novità che portano, in grado di riconoscere la specificità del contributo dei singoli ma allo stesso tempo far sentire di essere parte di un processo che genera valore condiviso.

Condizioni entrambe fondamentali per non rassegnarsi a contare anno dopo anno sempre meno giovani in un paese in cui i giovani contano sempre di meno.

Troppi squilibri tra generazioni, occorrono case servizi e lavoro

L’Italia è uno dei paesi da più lungo tempo in crisi demografica, ovvero in forte deficit rispetto alla capacità di garantire un ricambio generazionale equilibrato nella popolazione (e, conseguentemente, nei processi sociali e produttivi).

La fecondità italiana è precipitata da valori superiori a due figli in media per donna (soglia di rimpiazzo tra generazioni) a metà degli anni Settanta del secolo scorso, a meno di 1,5 figli prima della metà degli anni Ottanta. Non è poi più risalita sopra tale valore. Questo ha profondamente alterato la struttura per età, con un progressivo sbilanciamento negativo verso le età più giovani. Nella prima metà degli anni Novanta siamo diventati il primo paese al mondo in cui la popolazione inferiore ai 15 anni è scesa sotto quella di chi ha 65 anni e oltre. Successivamente siamo diventati il paese con più bassa incidenza di under 35 in Europa, entrando quindi, in modo più accentuato delle altre economie mature avanzate, in una fase di inedita e marcata riduzione delle coorti entranti in età lavorativa (oltre che riproduttiva).

Queste dinamiche hanno portato all’esaurimento della capacità endogena di crescita della popolazione italiana, entrata dal 2014 in fase di declino, con un saldo naturale negativo non più compensato nemmeno dall’immigrazione. La questione che ora si pone per l’Italia non è più far tornare a crescere la popolazione (destinata in ogni caso a diminuire), ma quanto lasciar aumentare gli squilibri interni tra generazioni. Il rischio maggiore è ora quello di superare il punto di non ritorno anche rispetto alla curva delle nascite.

Nelle “Considerazioni finali”, presentate il 31 maggio in occasione della pubblicazione della Relazione annuale sul 2022, il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha indicato la crisi demografica come una delle maggiori debolezza di fondo del Paese. Ha, in particolare, indicato l’immigrazione come uno dei fattori principali per mitigare la riduzione della forza lavoro potenziale, conseguenza della persistente denatalità. Per quanto rilevante sia e possa continuare ad essere il contributo dei flussi migratori, se la natalità continua a diminuire tali ingressi saranno sempre più insufficienti a colmare gli squilibri strutturali crescenti nel rapporto tra popolazione anziana e in età lavorativa. Se, da un lato, l’immigrazione è un fattore rilevante per rispondere agli squilibri demografici e ai fabbisogni delle imprese in molti settori, d’altro lato non è possibile un’attrazione di qualità senza sviluppo economico e possibilità di integrazione lavorativa e sociale. Inoltre, senza solide politiche familiari e generazionali a trovarsi ancor più in difficoltà nei propri progetti di vita saranno ancor più i figli degli immigrati e le famiglie straniere.

Non è possibile, quindi, affrontare la sfida demografica pensando solo di gestire gli squilibri, spostando in avanti l’età pensionabile e aumentando l’immigrazione, è cruciale intervenire in modo concomitante sulle cause.

I dati, del resto, sono eloquenti. Nel 2010 il numero medio di figli per donna in Italia era pari a 1,44 e ciò consentiva di ottenere 562 mila nascite. Lo scenario mediano delle più recenti previsioni Istat contempla un aumento del tasso di fecondità che consente di risalire fino a 1,44 figli nel 2039, a cui però corrisponde un totale di appena 424 mila nascite. A parità di numero medio di figli per donna ci troveremmo, quindi, con circa 140 mila nascite in meno. L’unico percorso che evita squilibri che si autoalimentano è quello che corrisponde allo scenario alto delle previsioni Istat. Con tale percorso si arriverebbe a circa 1,7 figli per donna nel 2039 con l’esito di riportare in modo solido le nascite attorno al mezzo milione.

Per i valori bassi da cui partiamo e per la struttura per età maggiormente compromessa, è necessario, insomma, convergere verso i paesi con maggior fecondità in Europa. I margini ci sono, dato che, come evidenziano varie ricerche internazionali e le stesse indagini Istat, il numero desiderato di figli è in Italia attorno a due.

Quello che altre economie mature che crescono in modo più solido del nostro hanno capito è che le politiche familiari vanno intese come parte integrante delle politiche di sviluppo, strettamente connesse con l’occupazione giovanile, la partecipazione femminile al mercato del lavoro, lo sviluppo umano a partire dall’infanzia e lungo tutte le fasi della vita. Intervenire in questa direzione in modo sistemico non favorisce solo la vitalità del territorio ma porta anche a migliorare gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.

Per riuscirci, partendo dai livelli più bassi e con una struttura demografica più compromessa, è necessario passare dall’essere stati nel decennio scorso i peggiori in Europa a porsi ora come l’esempio da seguire nelle politiche familiari e per le nuove generazioni da realizzare dopo l’impatto ulteriormente depressivo della pandemia.

E’ però bene essere consapevoli che non esistono misure in grado di essere da sole trasformative, vanno disegnate e implementate in modo da produrre un effetto leva in modo integrato. Il sostegno economico fornisce senz’altro il riscontro più immediato del valore collettivo dato alla scelta di avere figli. Ma perché a tale spinta si agganci un processo di inversione di tendenza che continui nel medio-lungo periodo serve un forte investimento sulle misure di conciliazione. L’asse portate è un solido sistema di servizi per l’infanzia con offerta accessibile – in termini di copertura, costi e qualità adeguata – sul tutto il territorio. La cultura della conciliazione deve, poi, essere aiutata a svilupparsi e consolidarsi nelle aziende (comprese le piccole e medie, aiutandole a trovare soluzioni specifiche in termini di part-time e smart working) e sul versante maschile (promuovendo i congedi obbligatori di paternità). Va, inoltre, rafforzato il percorso di autonomia dei giovani, con adeguate politiche abitative e di inserimento stabile nel mondo del lavoro. Siamo, del resto, il paese in Europa con età più tardiva al primo figlio.

Su tutti questi fronti continuiamo, da troppo tempo, ad essere molto più deboli rispetto alle altre economie avanzate con le quali ci confrontiamo, con conseguenti squilibri che vincolano al ribasso sviluppo e benessere futuro.

Cambiare il lavoro

Il mondo del lavoro si trova di fronte ad un grosso problema: le nuove generazioni si sono messe in testa di voler e poter scegliere. Un cambiamento che trova molti datori di lavoro impreparati e in certa misura sconcertati. Eppure si tratta di una notizia positiva. Ma non per tutti. Solo per i contesti in grado di essere attrattivi verso i giovani e metterli nelle condizioni di dare il meglio di sé.

Questo ha bisogno di alcune condizioni. Serve, innanzitutto, preparare a saper scegliere, ovvero a rendere coerenti le proprie aspirazioni con le proprie effettive capacità ed in relazione con ciò che la realtà offre (non solo per adattarsi ma anche per cambiarla). La carenza di orientamento nel sistema scolastico e nei servizi delle politiche attive rende i giovani italiani più fragili rispetto alla capacità di scelta e più esposti ad esperienze negative. I dati pubblicati nel “Rapporto giovani 2023” dell’Istituto Toniolo, in uscita in questi giorni, evidenziano come nelle nuove generazioni ci sia una forte richiesta di rendere più coerente il rapporto tra scuola e lavoro. Gli imprenditori italiani si  accorgono dei limiti della manodopera quando devono assumere, mentre molto meno si fa, rispetto ai paesi con cui ci confrontiamo, per preparare per tempo le competenze necessarie attraverso un’interazione continua delle aziende con le scuole e i servizi del territorio. Ma interagire con i giovani mentre sono ancora nelle ultime classi della secondaria consente anche di iniziare a prendere le misure reciproche, a capire come cambia il modo di pensare al lavoro, a riconoscere fragilità e potenzialità specifiche nei processi di apprendimento, motivazione e impegno attivo.

Oltre ad adeguata formazione e migliori sistemi di orientamento e accompagnamento all’ingresso nel mondo del lavoro, è sempre più sentita la necessità di mettere in relazione coerente crescita personale e professionale. La flessibilità in Italia è stata interpretata, più che nelle altre economie avanzate, come forma per poter assumere manodopera a basso costo e potersene facilmente disfare quando non più funzionale all’azienda. La bassa qualità della domanda di lavoro ha reso più fragile anche l’offerta, per il basso rendimento dell’istruzione, indebolendo sia le opportunità delle nuove generazioni che la capacità di innovazione e competitività (puntando sulla qualità di prodotti e servizi) del nostro sistema produttivo. Il timore di intrappolamento in percorsi di basso sviluppo professionale ha reso i giovani italiani, anche quelli ben preparati, ipercauti e diffidenti rispetto alla domanda di lavoro. Non a caso, le scelte più accentuate rispetto ai coetanei degli altri paesi sono quelle di rimanere più a lungo a vivere con i genitori in attesa di condizioni migliori e quella di cercare migliori opportunità all’estero. Questa distorsione della lettura della flessibilità – intesa come richiesta di adattarsi ad un esistente sempre più scadente che porta l’esistenza a diventare sempre meno soddisfacente – ha portato ad indebolire non solo il ruolo economico delle nuove generazioni ma anche le loro scelte di vita. A tutto questo i giovani sono diventati sempre più insofferenti. Lo stesso impatto della pandemia ha accelerato un mutamento di fondo sulle priorità da dare alla propria vita e all’idea di lavoro, che risulta incompatibile con questo tipo di flessibilità. Inoltre, le dinamiche demografiche rendono ancor più prezioso che in passato il ruolo dei giovani qualificati per organizzazioni e territori che vogliano alimentare processi di sviluppo avanzato e sostenibile.

La flessibilità che davvero serve è, allora, quella che consente di fare esperienze positive, di scegliere se rimanere in un’azienda o di cambiare per migliorare continuamente le proprie competenze professionali e sociali. L’attenzione, in quest’ottica, più che sulla singola azienda che perde il lavoratore dovrebbe essere sulla persona che migliora la propria capacità di essere attiva nei processi di crescita e produzione di benessere del paese, in grado di portare di più nella nuova azienda in cui entra rispetto a quella che ha lasciato. E’ sul rafforzamento di questi percorsi che si misura la salute del mercato del lavoro nelle società moderne avanzate in continuo e rapido cambiamento. In questa prospettiva le dimissioni sono fisiologiche e spingono le stesse imprese, nel medio periodo, a migliorarsi in tensione continua con la novità che portano le nuove generazioni. Più quindi che preoccuparsi per il fenomeno della Great resignation, va interpretato e accompagnato un processo di mutamento che è articolato e complesso, i cui esiti potenzialmente positivi non sono scontati. Sappiamo, però, che va nella direzione giusta ciò che favorisce il rafforzamento e la valorizzazione dei percorsi formativi e professionali in tutte le fasi di una lunga vita attiva, a partire dai nuovi ingressi.

Favorire autonomia e iniziativa per rigenerare il nostro Paese

Qualsiasi società per funzionare bene ha bisogno di un adeguato rinnovo generazionale. Tale rinnovo – come ben illustra il sistema di indicatori presentato in queste pagine –  pone al centro dei processi che alimentano benessere e sviluppo di un territorio la capacità di generare valore nelle varie fasi della vita e il rapporto tra generazioni.

Supponiamo che in un territorio si riduca la capacità delle nuove generazioni di accedere al mondo del lavoro e di formare un proprio nucleo familiare. Ciò porterebbe a una riduzione delle nascite e a difficoltà per le giovani famiglie a investire sulla formazione e il benessere dei figli, con conseguenze negative collettive.

Il rinnovo generazionale si realizza in due momenti chiave del corso di vita. Il primo è quello alla nascita, che consente di alimentare con nuovi ingressi la popolazione. Il secondo è quello dell’entrata nella vita adulta, che favorisce i processi di sviluppo economico e benessere sociale con nuovi ingressi nel mondo del lavoro e nei ruoli della vita civile e istituzionale. Si tratta di due fasi strettamente legate. Se non funzionano i meccanismi della seconda si indeboliscono anche quelli della prima. Ma un indebolimento delle nascite e delle condizioni dell’infanzia, porta ad una maggior fragilità demografica e a una debolezza dei percorsi formativi e professionali nella seconda fase. Con ricadute anche nelle fasi successive. Si rischia, infatti, di non riuscire a mettere basi solide per una lunga vita attiva e in buona salute. In particolare, il ritardo nei tempi di ingresso nel mondo del lavoro, i bassi salari e la loro discontinuità, tendono a condannare ad una condizione di povertà anche in età anziana con pensioni future basse.

La stessa qualità della vita nelle fasi più mature ha bisogno, quindi, di un rinnovo generazionale che funzioni, sia per ciò che lega, nei percorsi individuali, il benessere futuro con le scelte in età giovanile, sia per il rapporto quantitativo tra vecchie e nuove generazioni che dipende dalle dinamiche della natalità, oltre che dalle scelte dei giovani di rimanere sul territorio o spostarsi.

E’ illusorio pensare di costruire un futuro migliore aggiungendo vita davanti a sé (maggior longevità) lasciando indebolire la vita dietro di sé (minori nascite e scadimento della condizione dei giovani). Il vivere a lungo e bene è sostenibile solo in un territorio che ha un’adeguata presenza di persone nelle età lavorative.  Se la denatalità va progressivamente a rendere più squilibrato il rapporto tra chi produce ricchezza, finanzia e fa funzionare il sistema di welfare, da un lato, e chi assorbe spesa sociale per esigenze  di cura e assistenza, dall’altro, diventa sempre più difficile garantire sviluppo e coesione sociale.

La carenza di risorse, come conseguenza di una più debole forza lavoro e di una maggior spesa per l’invecchiamento della popolazione, tende ulteriormente ad indebolire gli investimenti verso le nuove generazioni (in termini di formazione, welfare attivo, strumenti di autonomia e politiche familiari). Rischia, quindi, di vincolare progressivamente il paese in un percorso di basso sviluppo, basse opportunità e basso benessere in tutte le fasi della vita. Per scongiurare questo scenario è necessario rispondere al degiovanimento quantitativo con un potenziamento qualitativo delle nuove generazioni, che favorisce anche la capacità attrattiva del territorio.

Una parte sempre più ampia del territorio italiano si trova già oggi in forte sofferenza come conseguenza degli squilibri prodotti dal debole rinnovo generazionale, con difficoltà a garantire servizi di base. La sfida dell’attrattività verso le nuove generazioni è ancor più sentita per i comuni montani e le aree interne, realtà decentrate ma cruciali per la tenuta complessiva del territorio sotto il profilo idrogeologico, paesaggistico e dell’identità culturale. Questi contesti anticipano quello che potrebbe diventare il paese se non inverte la tendenza. Come mostrano i dati della terza edizione degli indicatori generazionali della qualità della vita anche alcune grandi città mostrano evidenti difficoltà.

Più in generale, ciò che maggiormente oggi manca all’Italia è il valore che possono fornire le nuove generazioni all’interno dei processi di sviluppo del territorio in cui vivono. Diventa sempre più importante, pertanto, adottare la prospettiva delle nuove generazioni e configurare politiche in grado di aiutarle a farsi parte attiva e qualificata dei processi di cambiamento del proprio tempo. Questo significa mettere in campo risorse adeguate e strumenti continuamente aggiornati che consentano di generare valore personale e collettivo con le proprie scelte, sia sul versante maschile che femminile: supporto alla piena indipendenza economica e abitativa, promozione dell’intraprendenza nella società e nel mondo del lavoro, realizzazione piena dei propri progetti di vita. In particolare, avere un figlio deve entrare all’interno dei confini della progettazione possibile nei percorsi di transizione alla vita adulta, non posizionarsi oltre un orizzonte che viene spostato sempre più in avanti fino alle soglie della rinuncia. La mancanza di adeguate misure a sostegno dell’autonomia e dell’intraprendenza (attraverso housing e politiche attive del lavoro) rischia di mantenere molti giovani italiani nella condizione di figli fino all’età in cui diventa troppo tardi per diventare genitori.

Far funzionare i meccanismi del rinnovo generazionale, sul versante sia quantitativo che qualitativo, dovrebbe essere una delle preoccupazioni principali per una società che alimenta i processi di uno sviluppo sostenibile e inclusivo. Non c’è alcuna possibilità, del resto, di costruire un futuro migliore senza mettere in relazione virtuosa le opportunità del mondo che cambia, le specificità (culturali e strutturali) del territorio, le potenzialità e le sensibilità delle nuove generazioni.

Crisi demografica: rompere la spirale negativa del degiovanimento per tornare a crescere

In tutte le economie mature avanzate, come conseguenza della transizione demografica, la consistenza delle classi centrali lavorative sta andando progressivamente a indebolirsi, come mai in passato. Si tratta di una fase del tutto inedita e con forti implicazioni sulle condizioni di sviluppo, ma con incidenza diversa nei vari paesi.

In Italia, a fronte della continua crescita della componente anziana, il crollo della forza lavoro potenziale è tra quelli più marcati e con conseguenze economiche e sociali più problematiche. Se si lasciano sostanzialmente inalterate le condizioni del sistema Paese, alto è il rischio di scivolare irrimediabilmente in un circolo vizioso di basso sviluppo, bassa disponibilità di giovani qualificati, bassa innovazione, bassa espansione di nuove opportunità di lavoro e bassa crescita competitiva delle aziende. È, del resto, sempre più evidente la difficoltà delle imprese di alimentare e rigenerare i propri processi di crescita facendo leva sulle energie e le intelligenze delle nuove generazioni.

L’attenzione verso la crescita della fascia anziana porta a cercare soluzioni su come valorizzare quanto accumulato in passato dalle generazioni più mature, sia in termini di esperienza nel mondo del lavoro – nel contesto delle pratiche aziendali di age management – sia di ricchezza disponibile – attraverso la cosiddetta silver economy.

Ma le trasformazioni demografiche in atto ancor più pongono al centro la questione delle condizioni per generare nuova ricchezza e nuovo benessere. Per tutta la storia dell’umanità,  infatti, il funzionamento della società e dell’economia ha avuto come base solida una larga presenza di giovani. Anche la ricostruzione e la fase di esuberante sviluppo nel secondo dopoguerra hanno potuto contare sulla spinta fornita da tale base. Al censimento del 1951 gli under 30 erano oltre la metà della popolazione, oggi sono poco più di un quarto.

La domanda centrale da porsi è quindi: quali politiche servono per non rendere tali squilibri insostenibili e poter continuare a generare nuovo benessere in condizioni del tutto diverse da quelle che hanno consentito la crescita passata?

L’Italia, in particolare, è entrata in una spirale di degiovanimento, sia quantitativo che qualitativo, che costituisce un paradosso: abbiamo meno giovani come conseguenza della denatalità, ma investiamo persistentemente anche meno sugli strumenti che li rendono autonomi, attivi, competenti e intraprendenti nella società e nel mondo del lavoro rispetto al resto d’Europa (di conseguenza abbiamo anche il record di NEET, gli under 35 che non sono in formazione e non lavorano). Detto in altre parole, nel corso di questo secolo siamo stati tra i paesi più avanzati che più si sono distinti nell’indebolire la presenza quantitativa dei giovani, ma allo stesso tempo anche tra i meno capaci nel trasformare il potenziale delle nuove generazioni in produzione di valore collettivo (economico e sociale).

Va, quindi, favorita la possibilità di una nuova fase di sviluppo dopo la frenata causata dalla pandemia. Tale sviluppo deve essere coerente con le opportunità della transizione verde e digitale. Deve avere come motore il lavoro, a tutti i livelli, ma con particolare attenzione alle competenze che possono portare i nuovi entranti. Deve, però, essere anche coerente con i mutamenti di senso e valore assegnato al lavoro dalle nuove generazioni.

L’incontro in Italia tra domanda e offerta di lavoro soffre della carenza di un sistema di orientamento che aiuti i giovani a indirizzare la propria formazione verso competenze utili per entrare e crescere nel mondo del lavoro in coerenza con le proprie aspirazioni. Soffre anche della carenza di sistemi esperti di matching tra domanda e offerta che aiuti competenze richieste e offerte a trovare il loro punto di incontro più elevato per la valorizzazione del capitale umano, da un lato, e le esigenze di crescita competitiva di aziende e organizzazioni, dall’altro.

È altresì vitale un salto evolutivo qualitativo di tali sistemi. Ad essere allineate non sono solo le competenze ma anche le aspettative dei nuovi entranti con quello che il mercato è in grado di offrire oggi e domani. Servono operatori capaci di accompagnare il percorso di transizione scuola-lavoro aiutando i giovani a precisare meglio desideri, intenzioni, obiettivi professionali e sintonizzarli con l’evoluzione del mondo del lavoro e le opportunità del territorio; aiutandoli anche a capire come si valuta un’offerta di lavoro, cosa è realistico aspettarsi, cosa chiedere e come poi far evolvere in modo strategico il proprio percorso di carriera. Senza queste coordinate rimane elevata la diffidenza e prevale l’atteggiamento difensivo: pur essendo disposti a farsi pienamente coinvolgere da un lavoro che li appassiona, prevale il timore di essere sfruttati che porta a porre vincoli su tempi e modalità di impiego.

Il sistema produttivo italiano si accorge della mancanza di manodopera qualificata quando deve assumere, mentre molto meno si fa, rispetto ai paesi con cui ci confrontiamo, per preparare per tempo le competenze necessarie attraverso un’interazione continua tra aziende, scuole e servizi di politiche attive sul territorio. Interagire con i giovani mentre sono ancora nelle ultime classi della secondaria consente anche di iniziare a prendere le misure reciproche, a capire come cambia il modo di pensare al lavoro e quali sono le modalità di apprendimento e di impegno attivo che li ingaggiano maggiormente. L’incontro tra domanda e offerta non funziona se si riduce al mero colloquio di lavoro, a cui si arriva spesso in modo improvvisato o attraverso canali informali, ma va inteso come parte del processo di transizione scuola-lavoro in cui il colloquio è una tappa, non un appuntamento al buio (in cui nuove generazioni e datori di lavoro si scrutano come sconosciuti).

Formare bene i giovani, inserirli in modo efficiente nel mondo del lavoro, valorizzarne al meglio il contributo qualificato nelle aziende e nelle organizzazioni, consente di rispondere alla riduzione quantitativa dei nuovi entranti con un rafforzamento qualitativo della loro presenza nei processi che alimentano sviluppo economico, innovazione sociale, competitività internazionale. Frenerebbe, inoltre, la loro fuga verso l’estero e li metterebbe anche nelle condizioni di realizzare in modo più solido il loro progetti di vita, con conseguenze positive sulla formazione di nuovi nuclei familiari e sulla natalità.