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Perchè i giovani rischiano di perdere la fiducia nella nostra democrazia

Il 2020 è stato l’anno dell’emergenza causata da Covid-19. Il 2021 l’anno della protratta convivenza con il virus. Il 2022 avrebbe dovuto essere quello della ripartenza. Ma ancora una volta ci troviamo con un anno molto diverso da come auspicavamo. Speravamo di poterlo in futuro ricordare come il punto di partenza di un’Italia capace di cogliere la discontinuità della pandemia come occasione per una nuova fase di sviluppo. Per riuscirci sono necessarie risorse inedite. A questa condizione ha risposto il Piano europeo Next Generation Eu. Una condizione che rischia di risolversi in un grande spreco e in ulteriore aumento di debito pubblico se i finanziamenti non vengono indirizzati in modo efficiente per misure strutturali in grado di superare gli annosi limiti del passato e diventare leva per la crescita. Ma contestualmente è richiesto un ripensamento dello stesso concetto di crescita, in coerenza con nuove sensibilità e nuove sfide rispetto alle condizioni e alle modalità per generare benessere nei processi di sviluppo sostenibile. Il PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza), pur con alcune lacune e criticità, ha cercato di interpretare il momento storico del paese attraverso la definizione di priorità, strumenti e obiettivi.

Crisi demografica, la grande questione rimossa del Paese

La popolazione italiana è da pochi anni entrata in una nuova fase della sua storia, che caratterizzerà tutto il resto di questo secolo, quella del declino demografico. La curva demografica negativa pone una sfida inedita ai processi di sviluppo economico e al sistema di welfare del paese.

Se pensiamo alla fase, nel secondo dopoguerra, in cui l’Italia è maggiormente riuscita a cogliere le sfide dei tempi nuovi – espandendo opportunità e favorendo la mobilità sociale – le condizioni demografiche erano del tutto diverse a quelle attuali.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, la popolazione italiana cresceva ed aveva la struttura di una solida piramide, con molti più giovani e molti meno anziani rispetto a quella attuale (e ancor più a quella futura).

Dobbiamo, allora, oggi chiederci cosa significa generare benessere, alimentare processi di sviluppo, garantire sostenibilità sociale in un paese demograficamente in declino.

Se c’è una cosa certa del futuro è che con questa curva demografica negativa dovremmo sempre più fare i conti. Con modalità che richiedono un profondo riadattamento sia in termini di nuovi rischi che di nuove opportunità.

Questo significa anche che l’Italia non può recuperare soluzioni dal passato, ma debole è anche la possibilità di imitare altri paesi: sul fronte qualitativo per le specificità che ci caratterizzano e su quello quantitativo per la nostra maggior accentuazione dei cambiamenti demografici.

La demografia è implacabile – se non si fanno le scelte giuste per tempo – nel vincolare i margini sui quali costruire il futuro. E come lo fa? Levando mattoni dal basso dell’edificio demografico che così diventa via via sempre meno solido con il passare del tempo. La trascuratezza con cui abbiamo finora gestito queste dinamiche pone oggi il nostro Paese di fronte alla prospettiva di una drastica riduzione della popolazione attiva. La denatalità italiana ha, infatti, prima ridotto la popolazione infantile, poi quella giovanile ed ora sta andando ad erodere sempre più anche le età adulte (anche tenendo conto dei flussi migratori, senza i quali la riduzione sarebbe ancor più rilevante).

L’indicatore che misura il rapporto tra anziani e popolazione in età attiva è tra quelli guardati con più attenzione e preoccupazioni nelle economie mature avanzate. Fino agli anni più recenti ad alimentare la crescita dell’indice di dipendenza degli anziani è stato soprattutto l’aumento del numeratore (le persone di 65 anni e oltre), ma nei prossimi anni e decenni alla sua spinta verso l’alto contribuirà sempre più la diminuzione del denominatore (la popolazione in età da lavoro, ovvero la componente della popolazione che maggiormente contribuisce alla crescita economica, finanzia e fa funzionare il sistema di welfare).

Il contributo di tutte le generazioni è importante, ma è dal basso che una società si rinnova e mette solide basi per il proprio futuro. Il paese in Europa con la più bassa percentuale di giovani, non può più permettersi di avere anche alti livelli di Neet, di working poor, di overeducation.

Formazione e qualità del lavoro delle nuove generazioni devono essere messe al centro di una nuova fase di sviluppo del paese dopo la discontinuità della pandemia. E’ la risposta principale al debito pubblico, ai crescenti squilibri demografici, alle sfide poste dalla transizione verde e digitale.

Lo sviluppo solido e sostenuto dei primi decenni del secondo dopoguerra ha tratto la sua principale spinta da nuove generazioni che costituivano una risorsa consistente, ma soprattutto dinamica e vivace e intraprendente, nel contesto di un clima di fiducia e di aspettative positive crescenti verso il futuro.

L’insegnamento che ne deriva per oggi non è solo che condizione delle nuove generazioni e sviluppo economico sono legati ma anche che per superare le fasi di difficoltà e di rilancio dopo una discontinuità serve un progetto-paese in cui i giovani possano riconoscersi e intravedere una propria parte attiva.

Diventa allora necessario un cambiamento di strategia: non costringere i giovani ad adattarsi al ribasso a quello che finora il sistema paese è stato in grado di offrire, ma consentire all’economia di crescere e generare benessere, in coerenza con la vocazione dei territori, facendo leva sul meglio di quanto le nuove generazioni possono dare (quando preparate e incoraggiate adeguatamente).

Il posto dei giovani, tra presente e futuro

Progettare il futuro in un contesto in continua e rapida trasformazione
È ormai consolidato come, nel corso degli ultimi decenni, i profondi mutamenti che hanno interessato le società contemporanee abbiano determinato importanti cambiamenti sulla vita di uomini e donne, che si sono trovati a vivere le proprie scelte in un contesto in continua e rapida trasformazione. Questo è avvenuto, e sta avvenendo, in uno scenario dove i sistemi di welfare (quando presenti) non sempre riescono a garantire efficaci reti di protezione. In una situazione di marcata instabilità, profondamente segnata dalla crisi economico-finanziaria del 2008, la pandemia da Covid-19 ha rappresentato un improvviso e inatteso cambiamento nelle dinamiche globali, determinato una discontinuità imprevista e improvvisa 1.

All’interno di queste dinamiche, i giovani rappresentano la componente più colpita nel breve e nel medio-lungo periodo, sia per quanto riguarda le condizioni materiali, sia relativamente ai processi e alle dinamiche di costruzione dell’identità. Rilevanti (e potenzialmente profonde) sono le conseguenze sulla propensione a investire e progettare il futuro, in un contesto in cui le politiche faticano a dare risposte efficaci e sostegni opportuni, rimanendo sbilanciate verso la tutela delle generazioni adulte (con più peso elettorale e più presenza nelle categorie più influenti e meglio rappresentate). La pandemia ha acuito le diseguaglianze intergenerazionali e intragenerazionali, mettendo a dura prova tanto i sistemi politico-istituzionali quanto i sistemi economico-produttivi. Da ultimo, le recenti tensioni politiche connesse al conflitto russo-ucraino, hanno aggiunto ulteriore incertezza, sia rispetto alle dinamiche economiche della ripresa sia nell’atteggiamento dei singoli verso il futuro.

Uno dei caratteri distintivi delle società avanzate è identificabile nel binomio complessità e rapidità, dal quale derivano molte più opzioni per le nuove generazioni, rispetto alle generazioni precedenti, ma anche un maggior grado di insicurezza rispetto alle scelte da intraprendere. In questo senso la carenza, se non la mancanza, di sistemi di orientamento e supporto negli snodi dei percorsi di vita e professionali, aumenta il vincolo al ribasso di aspirazioni e obiettivi, generando un passaggio alla vita adulta in cui si rischia di portare delusioni e frustrazioni, anziché energie e competenze, necessarie per contribuire alla crescita e allo sviluppo sociale.

Se i giovani, forse ancor più che in passato, rappresentano la chiave fondamentale per agire sul cambiamento, occorre garantire condizioni adeguate perché possano svolgere tale ruolo, a fronte dell’aumento di complessità e dell’indebolimento del loro peso demografico, in senso sia assoluto che relativo, rispetto alle generazioni più mature. Se messe nelle condizioni adeguate, le giovani generazioni rappresentano la componente della popolazione maggiormente in grado di cogliere nuove opportunità dalle trasformazioni in atto. Se, invece, i giovani sono deboli e mal supportati, il rischio è che prevalgano le fragilità esponendoli a vecchi e nuovi rischi.

L’investimento dell’Ue, il ritardo italiano
Il programma NextGenerationEU, con i suoi 750 miliardi di euro messi a budget, rappresenta la principale risposta dell’Europa per porre le basi di una nuova partenza. Al nostro Paese sono stati riconosciuti poco più di 190 miliardi confermando il ruolo che l’Italia ha deciso di giocare attraverso l’attuazione del Piano di Ripresa e Resilienza. La centralità posta dall’Unione Europea sul fattore “giovani” risiede anche nella scelta di titolare il programma proprio alle “nuove generazioni europee” prevedendo, tra le sei principali missioni dei programmi di spesa nazionali, una specifica missione dedicata alle “politiche per la prossima generazione, l’infanzia e i giovani, come l’istruzione e le competenze”.

Nonostante la consistente quota destinata all’Italia, il nostro Paese non ha ritenuto necessario declinare le politiche per il contrasto al divario delle giovani generazioni all’interno del proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), limitandosi, peraltro anche in tema di pari opportunità, a prevedere una generica (quanto poco monitorabile) “priorità orizzontale”. Nonostante ciò, a livello politico si sono attivate anche misure che vanno nel senso di una attenzione specifica, come l’istituzione del COVIGE – Comitato per la Valutazione dell’Impatto Generazionale delle politiche pubbliche presso la Presidenza del Consiglio dei ministri 2.

Il progressivo processo di disinvestimento sulle giovani generazioni, che ha caratterizzato negli ultimi decenni il nostro Paese, incidendo in termini di riduzione in quantità e qualità adeguata di nuovi entranti nella popolazione, nella società, nell’economia, non è solo iniquo ma anche controproducente 3. Determina una riduzione delle loro prospettive anche rispetto agli ambiti e ai territori nei quali vivono: partecipano di meno al mercato del lavoro, rimangono più a lungo dipendenti dalle famiglie, si devono adattare a lavori spesso irregolari o sottopagati, oppure scelgono di emigrare. La lunga dipendenza dai genitori rappresenta sempre più una risposta a squilibri generazionali e all’aumento delle incertezze occupazionali.

Il tema delle diseguaglianze strutturali continua a rappresentare un elemento determinante e discriminante nelle chance che definiscono il destino sociale. In definitiva, i giovani italiani sono numericamente pochi, risultano meno formati a livello avanzato, poco valorizzati quando si inseriscono nel sistema produttivo, più passivamente a carico del sistema pubblico o della famiglia di origine 4. Se compariamo l’Italia con gli altri Paesi europei, emerge come i giovani siano meno messi nella condizione di creare valore per il “sistema Paese” e più esposti al rischio di diventare un peso in termini di costi sociali.

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Sulla demografia non si può ragionare con fini elettorali

Quale il ruolo dell’immigrazione nei processi di sviluppo del nostro Paese nei prossimi decenni? Si tratta di una questione cruciale che però la politica italiana considera scomoda e tende sostanzialmente ad eludere. Al di là della gestione dell’emergenza e delle preoccupazioni sulla sicurezza, non si trova traccia nel dibattito pubblico di una riflessione evoluta e strategica su come l’immigrazione possa (o meno) contribuire a rafforzare il futuro dell’Italia.

Stimolare i partiti ad affrontare, prima delle prossime elezioni, il tema dell’immigrazione – collocandolo nella prospettiva delle trasformazioni demografiche del nostro Paese e nella logica dello sviluppo sostenibile – è un compito che ASviS si è data assieme a FuturaNetwork. Una delle prime iniziative è stato il webinar dal titolo «Immigrazione e futuro demografico del Paese» organizzato il 20 giugno scorso, occasione per declinare la questione strategica di partenza in una serie di domande aperte concrete: “In quale misura? Con quali criteri di accoglienza? Con quale capacità di integrazione nel tessuto sociale? In quale contesto legislativo? Insomma, con quale politica di medio e lungo termine, al di là delle frequenti polemiche sull’ultimo barcone che arriva dall’Africa?”.

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La sfida demografica di Delhi

L’India è destinata a guadagnare un ruolo crescente nel quadro mondiale lungo il resto del secolo. Un primato è comunque già certo, con tutte le implicazioni che porta con sé, ed è quello del Paese più popoloso del pianeta. Secondo le stime delle Nazioni Unite (World Population Prospects 2019), tale Stato, che conta attualmente poco meno di 1,4 miliardi di abitanti, è previsto diventare entro il 2030 il primo e unico al mondo a superare il miliardo e mezzo. La Cina, invece, rimarrà sotto tale soglia (si trova attualmente poco sopra 1,4 miliardi ma ha già, di fatto, smesso di crescere).

Africa, Cina, India: trend diversi
Sullo scenario globale, India, Cina, assieme all’Africa nel suo complesso, rappresentano oltre la metà degli abitanti del pianeta. Hanno un ammontare analogo di popolazione, ma con livelli di fecondità molto diversi e che stanno alla base dei diversi ritmi di crescita. Ai due estremi stanno Africa e Cina. Il continente africano presenta i valori riproduttivi più alti del globo, con un numero medio di figli abbondantemente superiore a 4. Il Paese del Dragone, al contrario, è scivolato sulle posizioni più basse al mondo, con un tasso di fecondità precipitato molto sotto 1,5. Ancora diverso il caso del subcontinente indiano che ha recentemente concluso la sua transizione riproduttiva raggiungendo il livello di equilibrio tra generazioni (circa due figli in media per donna).

Come conseguenza delle diverse dinamiche della natalità, l’Africa continuerà a crescere in modo esuberante, la Cina sta già entrando nella fase di declino, mentre l’India andrà progressivamente a rallentare, iniziando però a diminuire solo nella seconda parte del secolo (dopo aver superato abbondantemente 1,6 miliardi).

Queste dinamiche si associano anche ad evoluzioni differenziate sulla struttura per età. L’Africa continuerà ad avere molti giovani (). La Cina ha oramai chiuso la propria finestra demografica positiva (il cosiddetto “dividendo demografico”) rispetto alla crescita economica. La “politica del figlio unico” (introdotta nel 1979) ha rafforzato la consistenza relativa della popolazione in età attiva, quella tra i 20 e i 64 anni, tra la fine del secolo scorso e l’entrata in quello attuale. Stanno, però, entrando al centro della vita lavorativa le generazioni nate dagli anni Ottanta in poi, mentre le abbondanti generazioni nate quando la fecondità era elevata, si vanno spostando in età anziana. Il brusco passaggio da alta a bassa fecondità imposto per legge presenta, quindi, il suo conto, mettendo Pechino di fronte ai costi di squilibri particolarmente accentuati nel rapporto tra generazioni).

Delhi: gigante demografico ma non (ancora) geopolitico
L’India ha, invece, avuto un percorso più graduale di riduzione della fecondità. La spinta del dividendo demografico è quindi più debole e tardiva rispetto alla Cina, ma anche gli squilibri demografici risultano in prospettiva meno gravi. Attualmente la fascia 20-64 presenta valori vicini al 65% in Cina e attorno al 58% in India. A metà del secolo il primo Paese si troverà con una incidenza della popolazione attiva scesa a meno del 55%, mentre il secondo salirà al 61% (raggiungendo il valore di oltre 1 milione di persone in età attiva, Figura 1). Nel frattempo, secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, gli over 65 cinesi passeranno da circa il 12 al 26%, mentre quelli indiani da meno del 7 a circa il 14%.

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