Posts By: Alessandro Rosina

Spiegate ai giovani perché i migranti ci salveranno

Nei prossimi anni il nostro Paese, compresa gran parte d’Europa, si troverà con sempre più persone ritirate dal lavoro che assorbiranno risorse per pensioni e spesa sanitaria, da un lato, e sempre meno persone in età da lavoro, dall’altro. Un quadro che rischia di diventare insostenibile, impoverendo la capacità di produrre crescita e dare solidità al sistema sociale. È possibile rispondere a questi cambiamenti in modo positivo? Sì, a tre condizioni. La prima è favorire una ripresa delle nascite. La seconda è mobilitare nel sistema produttivo le risorse finora sottoutilizzate, in particolare giovani e donne. Il terzo è rinvigorire la popolazione con l’immigrazione, rafforzando le carenze di manodopera in vari settori e rendendo più sostenibile il rapporto tra lavoratori e inattivi.

Chi dice di non volere l’immigrazione dà quindi per scontato il declino dell’Italia. Chi è accogliente accetta invece una sfida delicata e complessa, rispetto alla quale nessun paese ha saputo sinora proporre una soluzione convincente. Se lo scenario di chiusura è impossibile (a meno di togliere l’Italia dal centro del Mediterraneo e spostarla su Marte) è però anche vero che lo scenario di flussi di entrata mal gestiti e di permanenza mal integrata è il peggiore possibile, perché non migliora la crescita e va a inasprire le diseguaglianze.

L’immigrazione è quindi una sfida inevitabile che dobbiamo imporci di vincere. Ma non può essere vinta se prima non viene capita e colta, dalla classe dirigente e dai cittadini comuni, in tutta la sua rilevanza sul nostro futuro. Richiede una soluzione sia strutturale che culturale, mentre oggi prevale lo smarrimento politico e il disorientamento sociale, come ha ben evidenziato il Cardinale Scola nei suoi recenti interventi.

I dati recenti di un approfondimento del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, indicano che il 28% dei giovani tra i 18 e i 32 anni vorrebbe il rimpatrio di chiunque arriva, siano essi profughi o persone in cerca di lavoro. La grande maggioranza è invece favorevole all’accoglienza, ma non incondizionata. L’atteggiamento di fondo appare confuso e ambivalente. Da un lato, i ragazzi italiani, come evidenziano varie ricerche, tendono a non considerare straniero il compagno di banco con genitori di nazionalità diversa e colore della pelle diverso. D’altro lato, dai media vengono bombardati con notizie di sbarchi continui, di episodi di violenza e condizioni di sfruttamento. Ragioni e valori dell’accoglienza fanno così sempre più fatica a contrastare la crescita dei timori di una presenza straniera subita e non ben integrata.

Tutto questo in un contesto di crisi economica, di welfare in sofferenza, di risorse familiari in riduzione, di bassa fiducia nelle istituzioni e di alta disoccupazione giovanile. Non stupisce quindi che i giovani italiani siano quelli più indotti, rispetto ai coetanei degli altri grandi paesi europei, a pensare che chi arriva dall’estero più che aiutarci ad allargare la torta comune ci possa costringere ad una riduzione delle fette pro capite. Gli under 30 intervistati che concordano con l’affermazione che gli immigrati peggiorano le condizioni del paese in cui vanno a vivere sono oltre il 60% in Italia e Francia. Va però tenuto presente che la Francia ha subito attentati drammatici di matrice islamica e che ha una presenza straniera maggiore della nostra. Valori più bassi, poco sopra al 40%, si registrano invece in Germania, paese nel quale risulta più larga la consapevolezza che l’immigrazione sia parte integrante del processo di crescita del paese.

Questi dati devono far riflettere perché ci dicono che rischiamo di far chiudere in difesa una generazione potenzialmente aperta al confronto positivo tra mondi e culture. Conforta, in ogni caso, il fatto che si ottengono valori meno negativi nei contesti in cui l’integrazione funziona e tra chi è più informato sul fenomeno. La maggioranza di chi dice che gli immigrati sono troppi non sa infatti dire esattamente quanti siano, tende ad enfatizzare la componente irregolare e la voce dei costi sul welfare rispetto alla ricchezza economica prodotta.

La strada è quindi quella del miglioramento degli strumenti conoscitivi rivolti ai cittadini oltre che di una responsabilità più solida della politica nella guida al cambiamento. Iniziative come Open migration, siti di informazione come Neodemos, eventi pubblici di confronto positivo tra culture, misure di successo nelle periferie come Quarto Oggiaro a Milano, mostrano che la diffidenza si può superare e che la diversità può diventare ricchezza culturale ed economica. Lasciare che una larga parte dei giovani scivoli invece dalla diffidenza all’ostilità è l’errore più grande che oggi possiamo fare, del quale possono beneficiare solo le forze politiche che speculano sulle paure e che sanno solo alzare muri.

Se l’immigrazione è una di quelle sfide a cui non possiamo sottrarci è anche vero che senza un ruolo positivo delle nuove generazioni difficilmente possiamo pensare di vincerla.

Far vincere l’innovazione che include

Finalmente siamo arrivati alla fine di una campagna elettorale che ha avuto spunti interessanti ma non ha entusiasmato. I due principali candidati sono stati percepiti come molto simili. I temi toccati non hanno saputo suscitare forte interesse. Non si sono create le condizioni per mobilitare una diffusa e vivace partecipazione dal basso. Il quadro politico era, in ogni caso, molto diverso rispetto a cinque anni fa. Allora al governo nazionale c’era Silvio Berlusconi e il paese viveva una fase di grande incertezza nel bel mezzo di una crisi economica e di fiducia. Un clima che aiutò il centrosinistra ad accendersi sul voto, contro un centrodestra opaco. In queste amministrative, invece, una parte dell’elettorato di sinistra si trova in difficoltà a votare un Sala pro Renzi con la stessa convinzione con cui votò un Pisapia contro Berlusconi. Il voto dell’insoddisfazione, come ben noto, mobilita molto più rispetto alla conferma.

Lo squilibrio di genere

Milano, via vai frenetico nell’orario di punta di un giorno lavorativo. Una donna di trent’anni cerca di salire con fatica le scale della metropolitana spingendo un passeggino con a bordo un bambino. La maggior parte delle persone non la vede o la considera solo un ostacolo da superare in fretta nel tragitto verso il lavoro. Un uomo di cinquant’anni la nota e passandole a fianco le chiede se ha bisogno di aiuto. Ottiene come risposta un timido sorriso seguito da una frase quasi sussurrata: “No, grazie, non si preoccupi, faccio da sola”. Roma, autobus affollato in un tardo pomeriggio di maggio. Sale una donna di quarant’anni incinta. I passeggeri sono tutti un po’ stanchi e distratti, ma accade che miracolosamente un ventenne alzi lo sguardo dal cellulare, la veda e si offra di alzarsi.  La risposta che ottiene è “Ah grazie. Ma non si preoccupi, tanto, guardi, sono poche fermate”.

Riposte come queste fanno capire quanto toste siano le donne italiane, ma non ci aiutano a cambiare. Non aiutano a cambiare la società italiana e soprattutto non aiutano gli uomini a pensarsi, per il loro bene, in modo diverso.

Dagli anni Settanta ad oggi il ruolo delle donna si è profondamente trasformato. Fino ai primi decenni del secondo dopoguerra la subordinazione al marito era scontata e la possibilità di valorizzazione vincolata alla rete familiare. Oggi tutto questo non vale più. Non perché la realizzazione nel mondo del lavoro si è sostituita a quella come sposa e madre, ma perché entrambe le opzioni possono essere colte assieme. Questo cambiamento si è però realizzato in modo incompleto nella vita femminile e non ha quasi per nulla toccato l’ordine maschile. La conseguenza è una situazione di stallo, perché il percorso delle donne può continuare solo se parallelamente e in modo interdipendente si mette in moto anche quello degli uomini. Questo stallo deriva anche da una impostazione sbagliata, che ha alla base il presupposto che gli uomini debbano fare un piccolo passo indietro perché le donne possano fare un balzo in avanti. In realtà, tutto verrebbe spostato in avanti, ma con priorità e preferenze diverse dal passato.

Finora la parte attiva di questo cambiamento sono state le donne: loro a cercare di uscire da uno spazio vincolato per ottenere di più; loro a chiedere più misure di conciliazione come servizi pubblici e come welfare aziendale; loro ad aggiungere al carico domestico anche quello extra-domestico. La reazione sul lato maschile, come rivelano i dati Istat, riguarda quasi esclusivamente il maggior impegno lavorativo compensativo quando la moglie con l’arrivo di un figlio lascia l’attività o passa al part-time. Anziché cambiare equilibri vengono così accentuati vecchi squilibri. La conseguenza è lo spostamento delle coppie verso una tattica difensiva che comporta scelte al ribasso o rinunce: per le donne retrocedere rispetto alla realizzazione in entrambi i campi; per i padri perdere la possibilità di un pieno e coinvolgente legame con i figli fin dalla nascita; per i figli poter crescere nelle migliori condizioni di benessere economico e relazionale.

Per spostare, quindi, su un equilibrio più alto le opportunità combinate nelle vite di donne e uomini servono, certo, maggiori servizi di conciliazione, ma ancor più una rivoluzione culturale nella sfera maschile. Una rivoluzione che non si potrà mai realizzare se intesa solo come riequilibrio di genere in funzione di ciò che oggi manca alle donne. Deve essere, prima di tutto, un cambiamento che ha alla base cosa manca agli uomini. Che consenta anche ad essi di ampliare la sfera delle scelte di realizzazione, intese in relazione positiva, non in contrapposizione, con l’ambito professionale.

Non è una operazione semplice perché significa dover sviluppare sensibilità e codici di cura che non siano una imitazione di quelli femminili ma siano propriamente maschili e si possano inserire coerentemente nel modello familiare mediterraneo.

Segnali di sperimentazione di nuova paternità si intravedono, soprattutto nelle giovani coppie. Ma servirebbe una spinta più forte, non perché pretesa dalle donne ma perché auspicata dal genere maschile. Potremmo dire di essere a buon punto sulla strada giusta quando gli uomini non chiederanno più ad una donna incinta se vuole sedersi al loro posto ma si alzeranno e basta; quando il datore di lavoro darà per scontato il congedo di paternità, sapendo che un padre responsabile e soddisfatto migliora poi la sua produttività nell’azienda; quando il capo del Governo penserà che la delega alle pari opportunità possa anche essere assegnata ad un uomo e magari il ministero dell’economia ad una donna.

Il tempo giusto (forse) per essere giovani a Milano

Se li si forma bene e gli si offrono gli stimoli giusti diventano una risorsa preziosa per rendere le aziende italiane competitive, produrre innovazione, far crescere il territorio in cui vivono. Se non li si dota delle competenze necessarie e non si offrono opportunità vere di valorizzazione rischiano di scoraggiarsi e diventare un costo sociale. Sono i membri delle nuove generazioni, gli attuali under 30. Presentano caratteristiche simili in tutto il mondo perché sono cresciuti assieme alla realtà che cambia e sono quindi anche potenzialmente i migliori interpreti delle sfide del proprio tempo, quelle poste dalla globalizzazione, dalla rivoluzione digitale, dalle trasformazioni demografiche.

Riattivare i NEET: da vittime della crisi a protagonisti della crescita

SENZA GIOVANI E GIOVANI SENZA

Non basta uscire dalla recessione per tornare a crescere. La crisi non è come una tempesta, finita la quale il sole tornerà a brillare come prima. Anche perché il cielo italiano non era certo limpido e terso prima della crisi. La recessione non ci avrà insegnato nulla se continueremo a pensare che crescere equivalga a levare il segno negativo davanti alle variazioni del PIL. Una convinzione deve essere soprattutto chiara e condivisa: non imboccheremo mai un solido sentiero di crescita finché non diventeremo un paese in grado di trasformare le nuove generazioni in energia creativa e produttori a pieno regime di sviluppo e benessere.

La dimostrazione che sinora non ci siamo riusciti è l’abnorme numero di NEET (under 30 che non studiano e non lavorano) che abbiamo prodotto. Più in generale, siamo oggi il paese con la peggior combinazione tra riduzione del peso demografico di giovani, basso investimento in capitale umano delle nuove generazioni, alta quota di inattivi e scoraggiati, saldo negativo di interscambio di talenti con l’estero. Se dovessimo quindi sintetizzare il rischio maggiore che sta correndo questo paese e quello di perdere le nuove generazioni. Non solo abbiamo ridotto quantitativamente la presenza dei giovani nella popolazione italiana ma abbiamo desertificato l’età più fertile della vita. Tra i 20 e i 30 anni le nuove generazioni italiane si formano meno, lavorano meno, guadagnano meno e fanno meno carriera, fanno meno esperienze di autonomia e hanno meno figli, rispetto ai coetanei degli altri paesi avanzati.