Posts By: Alessandro Rosina

L’assessorato trasversale che manca

Mentre il Regno Unito stenta a riprendersi da Brexit, la Spagna vive l’incertezza di un ritorno al voto non risolutivo, in Italia scende la fiducia di imprese e consumatori, Roma è ancora senza giunta, a Milano si respira aria di tranquillità e in tempi brevi è già al lavoro la squadra del nuovo sindaco. L’impressione, guardando la composizione, è quella di un giusto mix tra continuità e rinnovo con competenze solide, che riflette anche un mix di presenza di politici, ancorata alle preferenze ottenute, e di apertura a tecnici di qualità. Non manca, inoltre, il mix giusto generazionale e di genere. Insomma, una giunta Mi che porta con sé una x tutta da scoprire nei prossimi cinque anni, ma che sembra partire con buoni auspici.

Brexit: un voto contro le giovani generazioni

In democrazia il voto va sempre rispettato e accettato qualsiasi esito produca. Quando si chiama il popolo a decidere – anche su questioni complesse che richiederebbero conoscenze approfondite – non c’è un risultato giusto o sbagliato, ma solo da accettare e a cui dar seguito. Tutto questo in teoria. Poi c’è Brexit e tutto salta. Chi ha votato per l’abbandono dell’Unione europea presenta segni di ripensamento; i politici che hanno vivacemente sostenuto le ragioni dell’uscita appaiono ora più cauti e in parte ritrattano le promesse fatte; chi ha perso raccoglie firme per fare un altro referendum. A monte una campagna referendaria mal condotta dal fronte Remain e spregiudicata sul fronte Brexit, che ha anche conosciuto momenti tragici come l’assassinio della deputata laburista Jo Cox. A valle un risultato che pochi si aspettavano, come mostra l’euforia delle Borse il giorno prima, e nessuno era preparato a gestire, come rivela l’assenza di un piano vero di attuazione da parte del governo inglese. Si è votato per l’uscita dall’Ue, ma l’effetto più forte del voto sembra l’uscita degli scozzesi dallo Uk. Questa più che democrazia sembra una sua grottesca rappresentazione. Brexit è un caso da studiare attentamente per capire cosa dobbiamo cambiare per far funzionare davvero i meccanismi democratici.
Tra gli aspetti che hanno suscitato un acceso dibattito del post referendum c’è inoltre il fatto che ha vinto il voto degli anziani, corsi in massa alle urne, ma le conseguenze principali le vivranno i giovani, che in larga parte si sono astenuti. La divisione generazionale, sia nell’affluenza che nell’orientamento al voto, è un tema complesso e delicato, che produce opinioni molto contrastanti e richiede quindi un surplus di riflessione.
Partiamo da una premessa. Le nuove generazioni nei confronti dell’Unione europea, come mostrano varie ricerche, hanno nel complesso un atteggiamento ambivalente. Sono molto critiche rispetto alle istituzioni, a come è stato sinora realizzato il progetto europeo, a come è stata gestita la crisi, alla mancanza di un vero modello sociale. Condividono però i valori comuni (la combinazione unica tra cultura, libertà e valore della persona), ne intravedono le potenzialità e apprezzano soprattutto la possibilità di mobilità per fare esperienze di formazione e lavoro. In sintesi, questa Europa non piace ai giovani ma anziché abbandonarla vorrebbero un salto di qualità, una Europa socialmente più solida all’interno e politicamente più forte all’esterno.

Il voto degli under 35 inglesi è coerente con questo atteggiamento. Un’elevata astensione (maggioritaria per gli under 25, ma sopra il 50% comunque nella fascia 25-34) con una alta prevalenza del Remain tra chi ha votato, ben esprime l’idea di un mandato a continuare per il progetto europeo ma tenendo conto di un’ampia quota di insoddisfazione (sentita soprattutto dalle classi sociali più basse). Questo è il messaggio che sarebbe arrivato se avessero votato solo gli under 35. Questo «sì» poco entusiastico è stato però del tutto sommerso dal «no» convinto e compatto all’Europa dato delle generazioni più mature. Hanno così, di fatto, deciso gli anziani su una questione che non cambia molto la vita di un ottantenne ma che avrà conseguenze rilevanti sui ventenni sia inglesi che europei.
È interessante inoltre notare come, di fatto, i giovani che si sono astenuti non abbiano lasciato che altri coetanei decidessero per loro, hanno invece subìto la scelta di generazioni molto lontane dalla propria come sensibilità e interessi. Questo era più difficile in passato quando i giovani erano tanti e gli anziani pochi. Il rischio che – quando è in gioco una scelta che ha conseguenze soprattutto sulle nuove generazioni – la scelta dell’elettorato più giovane venga contraddetta da un orientamento contrario dell’elettorato più anziano è in continua crescita per l’invecchiamento della popolazione.
Il tema che si pone non è tanto se sia migliore il voto di un ventenne o quello di un ottantenne, visto però che sarà soprattutto il primo a beneficiare o subire domani le conseguenze delle scelte collettive prese oggi, si può pensare che sia giusto che al suo parere venga dato adeguato peso. Detto in altri termini, se da una decisione comune Ego può guadagnare 2 e perdere 2 e Alter invece al massimo può perdere 1 o guadagnare 1, è giusto che entrambi contribuiscano allo stesso modo alla scelta da prendere?
La necessità di far contare di più il futuro sulle scelte del presente è sempre più riconosciuta nel dibattito pubblico dei Paesi occidentali, anche se stenta a trovare una via innovativa di concretizzazione. In un seminario organizzato dalla Corte costituzionale nell’ambito delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, Gustavo Zagrebelsky ha affrontato la questione dei diritti delle generazioni future partendo dalla storia dell’Isola di Pasqua, «grandioso e minaccioso apologo su come le società possono distruggere da sé il proprio futuro, per gigantismo e imprevidenza». Come fare in modo che le generazioni di oggi non facciano scelte miopi, a danno di chi verrà dopo? Per riconoscere i diritti delle generazioni future è necessario ribilanciarli con i doveri di quelle presenti. Per estendere i diritti «nel tempo futuro, può essere necessario ridurne la portata nel tempo presente».
Un tema davvero molto complesso e delicato che richiederebbe una grande e profonda riflessione collettiva in grado di trovare soluzioni nuove, anche rimettendo in discussione vecchie e consolidate certezze.

Vivere a lungo, vivere bene: la sfida della longevità al welfare

All’epoca del primo censimento italiano, condotto nel 1861, la durata media di vita superava di poco i 30 anni. Elevatissima era la mortalità infantile, che arrivava a decurtare un nuovo nato su quattro entro il primo compleanno. Molto contenuto era il numero di persone che arrivavano in età anziana e chi vi giungeva si trovava generalmente in uno stato di salute molto precario. Queste condizioni sono state una costante della storia dell’umanità dal Neolitico fino a circa un secolo e mezzo fa.Poi, ad un certo punto, è iniziato un processo inedito e unico, la “Transizione demografica” che ha progressivamente allungato la durata di vita della nostra specie. Dopo la riduzione dei rischi di morte nelle età infantili e adulte, a partire dagli anni Settanta i guadagni di vita si sono sempre più concentrati in età anziana.

L’Italia, soprattutto nel secondo dopoguerra, è diventata uno dei Paesi che hanno fatto maggiori progressi in questa direzione. Fuori dall’Europa, solo il Giappone presenta una aspettativa di vita maggiore. All’Unione europea, solo la Spagna presenta valori superiori ai nostri sul lato sia maschile che femminile. La Svezia si trova invece su posizioni più favorevoli dal lato maschile e la Francia su quello femminile. Secondo il Demographic Report 2015 dell’Unione europea, la speranza di vita degli uomini, arrivata a superare gli 80 anni, si trova di oltre due anni sopra la media Ue28, mentre il corrispondente valore femminile, arrivato attorno agli 85, è superiore di oltre 1,5 rispetto al resto dell’Unione. Nel 2015 si è osservata una leggera flessione – dovuta ad un picco di mortalità in età anziana in corrispondenza dei mesi invernali ed estivi in tale anno – che segnala, come torneremo a dire più avanti, la necessità di una maggiore attenzione verso la crescita quantitativa della componente fragile prodotta dall’invecchiamento della popolazione.

Al di là di questo recentissimo dato, il percorso degli ultimi decenni è stato più favorevole rispetto alle previsioni. I valori italiani erano rispettivamente pari a 69,4 (maschi) e 75,8 (femmine) nel 1975: questo significa che ogni anno vissuto la vita si è allungata di circa ulteriori 3 mesi. Sempre nel 1975 a 65 anni vi arrivava il 71,6% dei maschi e raggiunta tale età l’aspettativa ulteriore di vita era di 13,1 anni. Ora vi arriva l’88,3% con una prospettiva di altri 18,8 anni (dato Istat del 2014). La probabilità di chi è arrivato a 65 anni di vivere altri 20 anni era del 19,4% (ovvero solo uno su cinque riusciva a passare indenne dai 65 agli 85 anni), mentre è oggi vicina al 50%.

Articolo scritto con Extra Moenia.

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Lezione inglese sul voto dei giovani

Le conseguenze del referendum

Il 23 giugno 2016 il popolo britannico si è espresso a favore dell’abbandono dell’Unione Europea. Un risultato ottenuto con meno del 2 percento di scarto. Un margine ridotto, in termini elettorali, ma con conseguenze certamente storiche. Ovviamente, l’esito di un voto non è mai giusto o sbagliato in sé e la decisione va semplicemente accettata e rispettata. Ci sono, tuttavia, alcune questioni che questo referendum mette in evidenza rispetto alla spaccatura che si è determinata nel paese sulle dimensioni territoriale e generazionale, oltre che su quella sociale.

Un voto che spacca

Una delle divisioni più evidenti e più immediate è quella geografica: Scozia e Irlanda del Nord – più la città di Londra – si sono espresse a maggioranza per il “remain”, mentre Inghilterra e Galles per il “leave”. Il distacco della Gran Bretagna dall’Unione potrebbe quindi avere come conseguenza una divisione interna del paese. Scozia e Irlanda del Nord hanno espresso una propria volontà che però è stata annullata da una volontà opposta altrui. Assecondando le mai sopite spinte indipendentiste, potrebbero volersi mettere nella condizione di decidere da sole per il proprio futuro. Le affermazioni della premier scozzese vanno già in questa direzione.
Una seconda dimensione, ancor più delicata e complessa da maneggiare e interpretare, è quella generazionale. Da un lato, confermando una tendenza abbastanza consolidata, la partecipazione al voto è stata maggiore per le fasce più anziane (i dati provvisori danno un’affluenza sensibilmente minoritaria sotto i 25 anni, sopra il 50 per cento tra i 25-34, per poi salire via via sin oltre l’80 per cento per gli over 65). D’altro lato, l’orientamento di voto ha visto il prevalere del “leave” per le fasce più anziane della popolazione (over 50) e invece del “remain” per quelle più giovani.
Perché tutto ciò è particolarmente interessante? Perché qualunque siano le conseguenze del voto, chi dovrà subirle maggiormente sono proprio coloro che non avrebbero voluto lasciare l’Unione Europea. Come varie indagini e ricerche evidenziano, esiste un atteggiamento ambivalente delle nuove generazioni nei confronti dell’Europa. Da un lato, i giovani sono molto critici su come è stato sinora realizzato il progetto europeo, d’altro lato si identificano in valori comuni, riconoscono potenzialità e opportunità di mobilità. Secondo i dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, riferiti a un approfondimento internazionale condotto a luglio 2015, quasi il 60 per cento degli inglesi tra i 18 e i 30 anni considera favorevolmente la possibilità di spostarsi liberamente per fare esperienze di studio e lavoro in altri paesi europei.
Insomma, il ritratto è quello di una generazione che più che veder smantellato il progetto europeo lo vorrebbe rilanciato e migliorato. Un’alta astensione, ma con prevalenza del “remain”, esprime coerentemente questa posizione: il desiderio di non uscire, ma dando anche un segnale di forte insoddisfazione e incertezza su questa Europa. Il “sì” non entusiasta dei giovani è stato però spazzato via dal “no” pieno e convinto delle generazioni più anziane.

Articolo scritto in collaborazione con Paolo Balduzzi

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Non far uscire il futuro dei giovani dall’Europa

Davanti ad un mondo che cambia e diventa sempre più complesso si può reagire rimpiangendo vecchie sicurezze o impegnandosi a generare nuove opportunità. Le vecchie generazioni tendono a sovrastimare i rischi e a sottostimare il valore delle nuove sfide, ma faticano anche a trasmettere ai giovani stimoli e motivazioni per viverle essi stessi da protagonisti. Questo produce due conseguenze negative, l’ostilità verso i processi di cambiamento da parte dei più anziani e la mancanza di strumenti per  orientare positivamente le scelte dei più giovani. Brexit è un esempio di decisione determinata dal peso dei primi ma destinata a pesare sul futuro dei secondi, i quali subiscono in parte impotenti e in parte inconsapevoli.