Posts By: Alessandro Rosina

L’insicurezza non deve condizionare le nostre vite

Viviamo in un tempo di grande instabilità e insicurezza. I fatti nazionali e internazionali di questo periodo ce ne sta dando ampia conferma. Nessuno fino a qualche settimana fa poteva immaginare il colpo e il contraccolpo di stato in Turchia. Ancor prima, grande impressione ha destato la sequenza di eventi di cui sono state vittime nostri connazionali. All’inizio di questo mese a Dacca sono stati uccisi in modo efferato nove italiani che si trovavano all’estero per lavoro. La vita di altri sei, serenamente in vacanza a Nizza, è stata improvvisamente travolta e spezzata dalla furia omicida di un terrorista squilibrato. In mezzo a tali due eventi l’incidente ferroviario in Puglia nel quale – per una inaccettabile combinazione di errori umani, inefficienze burocratiche e arretratezza tecnologica – hanno perso la vita ventitre persone.

Perché scommettere sui giovani e sulle donne

Come ogni anno, lo scorso 11 luglio si è celebra la Giornata Mondiale della Popolazione. Nelle diverse aree del pianeta questa celebrazione assume significati diversi perché, pur essendo la Terra sempre più una casa comune, diverse sono le sfide che la demografia pone a benessere, sviluppo, rapporto con l’ambiente. Per tutti è comunque l’occasione per riflettere su quanto piccoli siamo individualmente e quanto grandi sono le sfide che dobbiamo affrontare collettivamente. Non siamo mai stati così tanti, eppure oggi a Milano si vive, mediamente, molto meglio rispetto all’epoca di Sant’Ambrogio o a quella di Manzoni. Ma vale anche per altre aree del mondo? Complessivamente sì: mentre nel 1800 un bambino che avesse voluto scegliersi la nazione in cui nascere non ne avrebbe trovata nessuna con aspettativa di vita superiore ai 40 anni, oggi anche nel più sfortunato dei Paesi non si scende sotto i 50 anni. Stiamo meglio e viviamo di più, ma sono aumentate anche le diseguaglianze. Tra il Giappone e la Sierra Leone ci sono 33 anni di vita di differenza.

Perché l’Italia fa meno figli di tutta l’UE

E’ davvero strano che in Italia la natalità sia così bassa. Si tratta di un record negativo certamente sorprendente. Come mai da oltre un milione di nati negli anni Sessanta siamo precipitati oggi a meno della metà? Come mai nel corso degli anni Ottanta le nascite sono crollate di più in Italia che negli altri paesi sviluppati? Perché, a differenza di altri paesi, non siamo poi più riusciti a risollevarci? E, infine, perché la crisi ha frenato maggiormente le scelte riproduttive delle coppie italiane rispetto al resto d’Europa? Davvero un mistero il fatto che lungo tutto lo stivale non si formino nuove famiglie o ci si fermi al figlio unico. Eppure, come tutti riconoscono, siamo uno dei paesi che negli ultimi decenni hanno maggiormente incoraggiato l’autonomia dei giovani dalla famiglia di origine; che maggiormente hanno rafforzato una entrata solida e stabile delle nuove generazioni nel mercato del lavoro; che più valorizzano, con spazi e opportunità, il capitale umano dei neolaureati; che meno sfruttano e meglio pagano i neoassunti. Beh, se tutto questo fosse vero potremmo dire che abbiamo meno figli perché non li vogliamo. La realtà, purtroppo, è ben diversa e per nulla sorprendente. Siamo uno dei paesi con il record di giovani che vorrebbero lavorare e non ci riescono; con maggior ostacoli per le donne che vogliono sia lavorare che avere figli; con più alto rischio di povertà delle famiglie che vanno oltre il secondo figlio.

Il confronto con la Francia è istruttivo e impietoso. I dati di una comparazione internazionale del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, svolta a luglio 2015, mostrano come tra gli under 30 il numero di figli che mediamente si vorrebbe avere, in assenza di vincoli e ostacoli nella realizzazione dei propri progetti di vita, è abbondantemente sopra a due. Se poi si passa a chiedere quanti bambini realisticamente si pensa di riuscire ad avere, il dato crolla a poco più di un figlio e mezzo in Italia, mentre scende a circa 1,8 in Francia. Ma il dato più interessante è che il numero di figli che poi effettivamente si riesce a realizzare risulta per gli italiani persino peggiore rispetto a quanto realisticamente dichiarato, mentre i francesi si trovano ad averne più di quanto preventivato tenendo conto di possibili difficoltà. Detto in altre parole, quello che accade da noi è che chi a vent’anni si vedeva in una famiglia con tre figli, si accontenta alla fine di averne due o solo uno. Chi puntava ad averne almeno uno si ritrova sempre più a posticipare fino a rinunciare del tutto. Anziché quindi trovarsi in un contesto che incoraggia a dare il meglio e a fare di più, ci si trova ad arretrare rispetto ai propri desideri e alle proprie potenzialità. In Francia, invece, grazie a politiche familiari più solide rispetto al bonus bebè, a un sistema fiscale non penalizzante per chi ha figli, a maggiori e più accessibili servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia, a politiche attive per il lavoro più avanzate, ci si trova ad avere un figlio in più anziché in meno.

Non c’è solo la Francia. I paesi scandinavi hanno un modello diverso. Gli Stati Uniti un altro ancora. Il problema dell’Italia è che non ha un suo modello. Non esiste una bacchetta magica. Non c’è una soluzione unica valida per tutti. Ma ci sono due preoccupazioni cruciali che in altri paesi vengono prese più seriamente e affrontate con più decisione: offrire ai giovani maggiori strumenti di autonomia e maggiori occasioni di inserimento nel mondo del lavoro è una precondizione essenziale per formare nuove famiglie; consentire poi, alle nuove coppie, di andar oltre al primo figlio senza il rischio di dover rinunciare al lavoro di uno dei due, è fondamentale per non rinunciare ad averne altri. Su entrambi questi punti siamo da troppo tempo cronicamente carenti. Ma quello che non capiamo è che sciogliere questi nodi non significa solo fare più figli ed avere una demografia meno squilibrata, significa anche alimentare un modello di sviluppo nel quale giovani e donne organizzano meglio le loro vite, realizzano meglio i propri obiettivi, esprimono in pieno le loro potenzialità. Significa quindi avere una politica che sa mettere desideri e progetti dei cittadini al centro di una società ed una economia che funzionano.

Dare più peso al futuro nelle scelte di oggi

Regna ancora grande incertezza sulle implicazioni di Brexit, alcune questioni che stanno alla base dell’esito del referendum sono però chiare. Una prima questione è la debolezza del progetto europeo, per come sin qui interpretato e realizzato. Una seconda è la difficoltà a comprendere e gestire i grandi processi di cambiamento in atto, con la conseguenza di percepire come minaccia tutto ciò che è nuovo e diverso.
Una terza questione, che qui ci interessa sviluppare, riguarda l’impatto della demografia sulla democrazia. In una popolazione che invecchia, la struttura demografica evolve verso un depotenziamento del peso elettorale delle nuove generazioni. Questo di per sé non è né un male e né un bene, ma ha delle implicazioni. In particolare, sulle scelte collettive che riguardano il futuro, conta di meno chi maggiormente subirà o beneficerà delle conseguenze.
Una possibile proposta è il voto ponderato legato all’aspettativa di vita residua. In questo modo un ventenne, avendo davanti una vita più lunga rispetto all’elettore medio, si troverebbe con un peso un po’ superiore ad uno e, viceversa, un ottantenne avrebbe un peso un po’ inferiore. Questo meccanismo va a mettere in discussione il principio di “una testa, un voto” e trova quindi una forte resistenza nel dibattito pubblico. L’esito del referendum inglese – rispetto al quale c’era un orientamento prevalente per il Remain tra gli under 35, annullato dalla forte preponderanza del Leave tra gli over 65 – ha riproposto il tema suscitando reazioni accese. Alcuni esempi sono Luisella Costamagna su ilfattoquotidiano.it, Martino Cervo su Libero, e Federico Gnech su Gli Stati Generali. La loro accusa, a chi sostiene le ragioni del voto ponderato per età, è di considerare implicitamente gli anziani egoisti, di non tener conto che anche essi hanno figli e nipoti, di aprire uno scenario in cui si potrebbero penalizzare anche i fumatori, o i meno benestanti, o quelli con titolo più basso rispetto agli altri.
E’ forse allora il caso di ribadire ulteriormente alcuni punti, sviluppati nella letteratura sul tema, a beneficio di una riflessione più equilibrata. Partiamo dalla prima critica: alla base c’è l’idea che i giovani votino “meglio” degli anziani? La risposta è no. Non viene messo in discussione come votano i cittadini, ma chi pagherà le conseguenze. Se da un voto collettivo Ego può perdere o guadagnare 2 e Alter può perdere o guadagnare 1, è giusto che Ego sia più responsabilizzato nel determinare l’esito finale? E’ questa la domanda giusta da porsi.
Seconda critica: derogando al principio “una testa, un voto” si creano diseguaglianze tra cittadini? Anche qui la risposta è no. A differenza delle proposte (spesso provocatorie) di dar più peso ai più istruiti o altre categorie, il peso legato all’aspettativa di vita non crea discriminazioni. E’ di fatto un patto che si fa con se stessi: accetto che quando sarò anziano il mio voto pesi un po’ di meno perché oggi pesi un po’ di più. Tutti i cittadini nel corso della loro vita hanno lo stesso profilo di peso elettorale. La critica vera riguarda, semmai, la possibilità di concreta applicazione. Solo con il voto elettronico la ponderazione è possibile.
In ogni caso, i temi intrecciati di come dar più peso ai “nuovi”, come rispondere alle sfide che le trasformazioni demografiche pongono, come dar più rilevanza alle implicazioni future delle scelte di oggi, non sono certo risolti dal voto ponderato ma non possono nemmeno essere liquidati con superficialità e fastidio come avviene troppo spesso nel dibattito italiano.

I giovani possono amare l’Unione solo se la conoscono e la vivono

L’uscita delle Gran Bretagna dall’Europa impone riflessioni che vanno oltre le ragioni e le conseguenze immediate di un sì o un no su una scheda referendaria. Brexit va considerato prima di tutto il riscontro di quanto il progetto europeo sia diventato debole e non pienamente convincente. A sua volta tale risultato può indebolire ancor più il percorso di integrazione e farlo implodere. E’ però anche possibile che inneschi una reazione positiva, in grado di produrre un rinsaldamento nell’immediato e metta le basi per un rilancio nel medio e lungo periodo. La possibilità che questo avvenga realmente è bassa ma non ci sono alternative e va quindi non solo auspicata ma favorita ad ogni livello. Gli attori principali per un salto qualitativo – dopo il processo di allargamento quantitativo che ha portato ad estendere ad est perdendo però ora ad ovest – sono due: le istituzioni e le nuove generazioni. Di fatto significa spingere verso l’alto il rapporto tra domanda e offerta di una migliore Europa, la prima riferita soprattutto ai giovani e la seconda alla politica.

Le generazioni che hanno subito la guerra mondiale e quelle successive che hanno vissuto il clima della guerra fredda si sono riconosciute in un desiderio di Europa diversa dal passato, che al suo interno non si sentisse divisa tra parti ostili. Oggi tale spinta si è esaurita e più che ridurre il rischio di conflitto interno serve ora un processo di vera comunione. Questo significa superare non solo i confini geografici tra popoli ma anche le barriere mentali che li separano tra di loro e che li rendono vittime delle proprie paure. Per un’Europa così si sarebbe un posto di primo piano nel mondo, mentre i singoli paesi sono destinati a smarrirsi andando da soli verso il futuro. Nel 1950 ben tre delle cinque città più popolate al mondo stavano in Europa, ora nessuna metropoli di questo continente è tra le prime quindici nel pianeta. Nello stesso lasso di tempo l’Italia è scesa dal decimo posto al ventitreesimo posto tra i paesi demograficamente più consistenti. Nel 2050 nessun paese europeo sarà tra i primi venti, nemmeno la Germania, attualmente il più popoloso ma in sensibile sofferenza demografica. Se però l’Europa fosse uno Stato verrebbe superata, come abitanti, solo da Cina e India.

Per ottenere un’Europa più forte nel mondo non basta però sommare nazioni diverse e nemmeno è sufficiente porsi regole e vincoli per stare assieme come famiglie di uno stesso condominio (peraltro composte da anziani o coppie con un solo figlio). Sono due le sfide principali che un rilancio del progetto europeo deve allora porsi e vincere: quella demografica e quella culturale, in parte intrecciate tra di loro. L’investimento quantitativo e qualitativo sulle nuove generazioni è cruciale per qualsiasi realtà sociale, economica, politica che voglia aprirsi alla produzione di nuovo benessere e non chiudersi a difesa di vecchie sicurezze. Ma allo stesso tempo è difficile che le coppie abbiano figli, che i giovani siano incoraggiati ad essere attivi e intraprendenti, che l’accoglienza di immigrati si inserisca in un contesto favorevole, se non ci si sente parte di un processo di crescita culturale comune, con valori solidi e condivisi alla base e la visione di un futuro desiderabile da raggiungere. Che le generazioni più mature abbiano perso le ragioni iniziali del progetto europeo è ben rappresentato dal voto degli over 65 al referendum inglese, caratterizzato da alta partecipazione ma con orientamento spiccato verso il Leave. Che le nuove generazioni non si sentano pienamente coinvolte in un processo di crescita comune è ben espresso dalla forte astensione degli under 25. Se un rilancio è possibile non può però che far soprattutto leva sui più giovani. Come mostrano i dati del “Rapporto giovani” dell’istituto Toniolo, il loro atteggiamento nei confronti dell’Europa è ambivalente. Da un lato sono molti critici: quelli con titoli di istruzione più bassi soprattutto per come è stata gestita la crisi economica, per la difficoltà a proteggere le fasce più deboli, per i timori verso l’immigrazione, per la crescita di insicurezze economiche e sociali; quelli con titoli più alti soprattutto per una “delusione da attese”. D’altro lato, si riconoscono nella combinazione unica di cultura, libertà e valore della persona, intravedono le potenzialità di un salto di qualità verso gli Stati Uniti d’Europa e considerano una conquista irrinunciabile la possibilità di muoversi liberamente senza confini. Questi aspetti positivi sono ampiamente condivisi ma prevalgono, sui punti critici sopra elencati, soprattutto in chi ha capitale umano elevato e ha svolto periodi di studio o lavoro in altri paesi.

Questi dati suggeriscono la necessità di rafforzare la qualità di domanda di Europa favorendo nelle nuove generazioni processi di aumento dei livelli di formazione; migliorando la conoscenza specifica delle istituzioni europee; potenziando la possibilità di fare esperienze (in età molto giovane e con particolare attenzione per chi proviene da classi sociali basse) di crescita personale, confronto culturale, impegno civile in ambito internazionale.

Serve però, allo stesso tempo, un miglioramento dell’offerta di Europa, più in sintonia con le esigenze e le sensibilità specifiche delle nuove generazioni. Per andare in questa direzione abbiamo bisogno di istituzioni con maggior capacità di visione: in grado di favorire – all’interno – la creazione di un modello di sviluppo che sappia coniugare innovazione e inclusione sociale, ma in grado anche di esprimere – all’esterno – una posizione comune e incisiva sulle grandi questioni internazionali.

Al di là del voto inglese e dei suoi esiti, è dalle nuove generazioni e dalla loro Europa desiderata e partecipata che bisogna in ogni caso ripartire. Sempre che, anziché rassegnarsi alla disgregazione, ci sia l’effettiva volontà di scommettere su un vero progetto di rilancio.