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L’età del mondo. L’analisi

La demografia è particolarmente efficace nel raccontare il mondo che cambia. Una delle conquiste di cui essere più orgogliosi è l’aver reso la mortalità infantile da esperienza comune ad evento raro. Un risultato quasi perfettamente raggiunto nei paesi più ricchi, ma ancora lontano dall’essere realizzato in molti paesi poveri. In alcune aree del pianeta la situazione non è molto diversa dall’Italia nei primi decenni dell’Unità: una popolazione molto giovane, alimentata da una fecondità attorno ai cinque figli per donna, ma anche con alti rischi di morte e povertà diffusa. A trovarsi oggi in questa situazione, non invidiabile, sono soprattutto alcuni paesi dell’Africa centrale.

Il cambiamento inizia quando si intravede la possibilità di miglioramento passando dalla quantità di figli all’investimento sulla loro qualità. La fecondità tende allora a scendere attorno ai due o tre figli, con vita più lunga e aspettative crescenti di mobilità sociale. E’ il ritratto dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, molto simile a paesi oggi emergenti, con ruolo molto dinamico delle nuove generazioni sia nei processi di crescita che di emigrazione. Al censimento del 1951 l’età media della popolazione italiana era attorno ai 30 anni, con una struttura demografica non molto dissimile dall’Albania, dalla Tunisia e dalla Turchia di oggi.

L’aumento delle condizioni di salute e di benessere hanno portato le vite nei paesi più ricchi ad estendersi in età sempre più avanzata. Aumentano quindi gli anziani, ma in alcuni paesi – come Giappone, Italia e Germania – l’invecchiamento è accentuato da una fecondità che scende molto sotto i due figli. Abbiamo trasformato da evento raro a condizione sempre più comune il diventare anziani ma aperta è la sfida di costruire una società matura di successo.

Un nuovo progetto riformista con al centro le nuove generazioni

Senza riforme ci si tiene un Paese che non funziona o che funziona per sempre meno cittadini. Chi ha rendite di posizione e benessere passato da proteggere, migliora la propria situazione relativa. Chi è in difficoltà o fa il suo ingresso nella vita adulta e professionale, si trova invece con crescente rischio di esclusione e restrizione di opportunità. Nel complesso il paese stenta a crescere e aumentano le diseguaglianze.

Il Futuro che (Non c’è) – Editoriale

Il successo di una azienda, prima ancora che dalla dotazione di nuove tecnologie, dipenderà nei prossimi decenni dalla capacità di lungimirante gestione della propria forza lavoro. Questa convinzione, in combinazione con il processo di invecchiamento, ha fatto crescere negli ultimi anni l’attenzione verso l’«age management», inteso come insieme coerente di risposte che le organizzazioni possono dare per migliorare il contributo professionale dei singoli a tutte le età, comprese quelle più mature. L’Italia, come mostrano varie ricerche, è però in colpevole ritardo nell’affrontare concretamente questa cruciale sfida, non solo per la recessione che ha spostato l’attenzione delle imprese sul presente con approccio difensivo, ma per motivi anche strutturali di lungo periodo e culturali radicati. Non c’è dubbio però che le realtà che prima inizieranno ad agire positivamente in questa direzione, si troveranno nei prossimi anni con un vantaggio competitivo sulle altre.

Nel welfare la carenza di risorse non è affatto un alibi. Bisogna organizzarsi

Senza evocare profezie su conflitti tra generazioni, fare welfare in carenza di risorse richiede alcune scelte. La prima possibilità è quella di restituire ai singoli le proprie responsabilità, arretrando le protezioni sociali offerte nel secolo del progresso. In questa direzione sembra muoversi il Giappone, dove si sta immaginando la fine delle pensioni di vecchiaia e si chiede ai giovani di concentrare i propri studi universitari su scienza, tecnologia e matematica, ma anche l’Inghilterra, che consente ai pensionandi di ritirare i propri contributi previdenziali per farne l’uso che ritengono più utile. Che cosa accadrà se di questi contributi viene fatto un cattivo uso, o per dirla più semplicemente, se ci saranno molte persone che sopravvivranno al proprio reddito?

Ripensare città inclusive per i giovani

LE CITTA’ nel XXI secolo continueranno ad essere centro di sviluppo e innovazione, ancor più che nei secoli passati, ma lo faranno verosimilmente in modo diverso. Come vanno, allora, letti i dati rielaborati da McKinesy sul rallentamento della popolazione urbana? Proviamo a rispondere in quattro punti più una premessa.

Va innanzitutto ricordato che questo secolo è il primo nella storia in cui è più comune vivere nelle città che altrove. Inoltre, sulla ricchezza globale, la parte prodotta nelle metropoli continuerà a crescere. Fatta questa premessa, un primo punto da mettere in rilievo è che la popolazione mondiale ha smesso di correre al ritmo osservato nel XX secolo. Continueranno a crescere in modo esuberante ampie parti dell’Africa e alcuni paesi dell’Asia, ma molto meno il resto del mondo e ancor meno l’Europa. Questo, ovviamente, ha ricadute anche sulla demografia delle città, ma non necessariamente sul loro peso relativo entro i vari paesi.

Secondo punto: il successo dei sistemi urbani dei prossimi decenni dipenderà molto più dalla qualità che dalla quantità, nella direzione aperta dalle smart cities. Terzo punto: le grandi città di questo secolo insistono su un sistema molto più ampio rispetto ai confini amministrativi. L’idea stessa di abitanti va ripensata: oltre allo stock di residenti acquisiscono sempre più importanza i flussi, ovvero il contributo di chi partecipa temporaneamente o a distanza ai processi della città. Ad esempio, la fascia d’età tra i 15 e i 25 anni è quella demograficamente meno consistente a Milano, ma diventa la più rilevante se si includono come parte attiva gli studenti non residenti.

Quarto: rispondere al ”degiovanimento” che indebolisce la crescita propulsiva delle città, è possibile attivando e alimentando circoli virtuosi di innovazione e inclusione che mettono al centro le nuove generazioni. Le metropoli che ci riusciranno diventeranno i veri motori di sviluppo dei prossimi decenni